A QUIET PASSION di Terence Davies (2016)
Negli Stati Uniti dell’Ottocento, quando la poesia, come ogni altra forma artistica, era predominio degli uomini, un’unica voce femminile si levò in tutta la sua la sua grazia e talentuosa creatività, peraltro ottenendo la notorietà e la pubblicazione della stragrande maggioranza dei propri scritti solo dopo la morte: fu quella di Emily Dickinson, oggi considerata, non solo nella letteratura americana, tra gli autori più importanti nel secolo. La figura della Dickinson, vissuta tra il 1830 e il 1886, gode di un alone di culto assoluto, cui fa da contraltare, in base alle pochissime informazioni disponibili sulla sua biografia, la singolarità di una vita appartata, trascorsa interamente nella casa paterna. Su questo personaggio sfuggente e a tratti oscuro, a dispetto delle circa 1800 liriche che ha lasciato ai posteri, Terence Davies confeziona un raffinato biopic, passato nel 2016 alla Berlinale e al Torino Film Festival e approdato nelle sale italiane con due anni di ritardo.
Dopo una breve prima parte in cui, ancora adolescente, è incarnata dalla promettente Emma Bell, a dare corpo e voce alla poetessa è la cinquantenne Cynthia Nixon, bravissima e in odore da Oscar in un ruolo agli antipodi da quello interpretato nelle sei stagioni di Sex & the City. In una puntigliosa ricostruzione d’epoca il regista britannico scava dentro la personalità complessa e a tratti incomprensibile (proprio perché in gran parte avvolta nel mistero) di una donna vorace di vita e anticonformismo, dall’animo ribelle e dalla estrema sensibilità. Il rifiuto del dogmatismo religioso, l’antischiavismo, la creatività artistica scaturita dall’amore per le pagine delle sorelle Bronte, il rapporto intenso e al contempo conflittuale con il padre severo (un misurato Keith Carradine) e quello con il fratello Austin (Duncan Duff) e la sorella Vinnie (Jennifer Ehle), la scelta di autoreclusione in contrasto con la ribollente indole femminista (o forse come unica opzione per non negarla) sono i temi affrontati da Davies in questo ritratto di ambizioso rigore, che in definitiva, però, non convince sino in fondo.
Per quanto ammirevole sia il lavoro filologico, a fronte di una componente visiva ricercata ed elegante, il film difetta di quella forza e quel fervore che permettano un vero coinvolgimento da parte dello spettatore. A Davies fatica a tradurre in immagini l’incanto vibrante delle poesie della Dickinson ma a stupire è soprattutto la scelta di non approfondire il rapporto tra l’artista e il reverendo Wadsworth (Eric Loren), secondo gli studiosi uno dei suoi amori platonici, cui dedicò diverse opere. Così, nonostante una sceneggiatura a tratti brillante e le ottime interpretazioni, le oltre due ore di film finiscono col tradursi semplicemente in un catalogo di aneddoti dalla confezione perfetta, ma di scarsa intensità.
Voto:2/4