Aftersun di Charlotte Wells, la recensione
Su MUBI e in alcune sale
Ci sono degli esordi al Cinema che sono folgoranti e l’acclamato Aftersun di Charlotte Wells non fa eccezione. E a proposito di esordi come non ricordare J’ai toué ma mère (Can, 2009) opera prima semiautobiografica (scritta a soli sedici anni) del talentuoso e pluripremiato regista canadese Xavier Dolan. Anche in questo caso, come in Aftersun si affronta il rapporto più o meno conflittuale tra genitori e figli. Per Dolan il rapporto con la madre è feroce e violento, per la Wells c’è il ricordo (altrettanto autobiografico), tenero e nostalgico di una figlia ormai adulta e di una vacanza a undici anni col padre separato, rivissuta attraverso un filmino.
Splendidi gli attori: l’esordiente Frankie Corio (Sophie), la figlia, e Paul Mescal (Callum), il giovane padre. E come Sophie impara a maneggiare la piccola telecamera e a testimoniare brevi ma significative porzioni della vacanza, impara ad entrare nel mondo del genitore, da cui riceve e a cui offre gesti affettuosi di accudimento. La crema solare messa teneramente dal padre, diventa invece gesto sensuale, se vista mettere da un ragazzo alla sua fidanzata. Ecco che il piccolo mondo di Sophie si sdoppia: da figlia a giovane adolescente, che durante la vacanza si confronta, in modo platonico, con i primi brividi dei sensi.
Il mezzo crea la complessità della narrazione, di una storia apparentemente molto semplice, che attraverso il montaggio parallelo, la frammentazione delle inquadrature, la dinamicità della ripresa con la telecamera e gli elementi metacinematografici, interroga il rapporto tra padre e figlia e si interroga sulle potenzialità espressive del mezzo cinematografico. Il medium diventa il linguaggio su cui si sostanzia la storia. Una riflessione della Wells sul Cinema e la sua ontologia, sul rapporto emozionale tra un padre separato e una figlia e sulla crisi esistenziale di Callum (e forse anche di Sophie da adulta) rappresentata in modo ellittico e con inquadrature sfocate o parcellizzate. Non ci sono risposte a noi note sul perché il padre sia in crisi, si rimane nel campo dell’immaginato, delle supposizioni e il racconto non didascalico ne supporta magnificamente l’ellissi. Un padre in crisi che tende ad uscire dall’inquadratura diventa linguaggio cinematografico.
Sfogliando il film si colgono spunti interessanti di riflessione. Una per tutte è la sequenza che dura circa tre minuti e mezzo in cui Sophie gioca con la telecamera e il padre in camera. La costruzione della sequenza è folgorante e la sovrapposizione semantica affascinante: la significazione stratificata, creata dalla contiguità e contemporaneità dei medium, crea una sequenza dal sapore più amaro che dolce, con una sottotraccia che si discosta totalmente dall’apparente leggerezza.
Partendo dal riflesso frammentato e fugace di padre e figlia nello specchio della camera, si “sfiora” la “caverna” di Platone, si passa da Barthes, per arrivare ad una riflessione metacinematografica. È quindi lecito accostare a questa sequenza il significato intrinseco del trattato del semiologo Roland Barthes: La camera chiara. Per Barthes nella pratica fotografica oltre allo Spectator (colui che guarda l’immagine) e allo Spectrum (colui che viene ritratto) c’è l’Operator (colui che fa la foto) e l’organo del fotografo non è l’occhio che guarda nel mirino, ma il dito che scatta la foto. “La fotografia così diventa più una questione di corpo che di intelletto e di sensibilità più che di ragionamento. La macchina fotografica, prima ancora di essere un dispositivo della visione è un qualcosa che ci fa essere qualcuno che vuol vedere o che deve farlo. Il fotografo con la macchina fotografica diventa un essere nuovo, trasformato nella sua fisicità e soggettività, con tutto ciò che questo comporta”. E’ alla luce di queste riflessioni che la sequenza citata “cambia il corpo” e quindi il risultato finale dell’esperienza dei due protagonisti, e cambia il nostro sguardo in virtù dello stile e dei codici visuali della regista.
Analizzando la sequenza vediamo Sophie, riflessa parzialmente nello specchio, che sta riprendendo con la telecamera il padre che sta sul terrazzino (e quindi si trova fuori campo); ma ciò che la bambina sta riprendendo, lo spettatore lo vede nella televisione di fronte, collegata al dispositivo di ripresa. Le immagini si frammentano e si moltiplicano in una combinazione multipla di visioni tra riflessi e media contigui. E’ qui che troviamo la domanda centrale del film, che Sophie da adulta guardando il filmino si pone e pone al mezzo di ripresa: “chi siamo io e te papà? e come ci sentivamo nel qui e ora di un tempo ormai morto?”. E’ una domanda immaginata che suona ad un tempo nostalgica e amara.
Quando, come in questo piccolo gioiello, sono le potenzialità espressive, stilistiche ed ontologiche del mezzo cinematografico a creare il contenuto, prende vita una storia, solo apparentemente semplice, che con una cifra stilistica purissima, interroga la sostanza stessa dei ricordi: un tessuto leggero dalla trama riannodata, struggente ed eterea.
Voto: 3,5/4
Mirta Tealdi