ANNI FELICI di Daniele Luchetti (2013)

locandina-anni-feliciCi vuole coraggio a rifiutare la storica vetrina glamour di Venezia in favore del più discreto e giovane TIFF, che tuttavia da qualche tempo si sta confermando uno dei festival più qualitativamente importanti. Soprattutto se si sceglie di presentare una storia tutta italiana, il ritratto di una famiglia, e di un’epoca (gli anni Settanta) difficile da esportare senza rischiare fraintendimenti.
Eppure Daniele Luchetti (La Scuola, Mio fratello è figlio unico) ha osato, probabilmente consegnando indirettamente il Leone d’Oro nelle mani di Gianfranco Rosi: il vincitore della settantesima statuetta è infatti stato inserito con Sacro GRA in concorso dopo il gran rifiuto dell’autore di Anni felici.

 

Luchetti si mette a nudo, raccontando un’estate della sua infanzia, insieme alla sua famiglia anticonvenzionale. Il padre Guido, scultore incompreso, totalmente immerso nel milieux culturale anni Settanta, tutto impegno sociale, lotta antiborghese e voglia di scandalizzare, che non riesce a fare il padre, concentrato com’è sulla sua voglia di diventare artista. La madre Serena, che non ama l’arte ma in compenso ama moltissimo l’artista, gelosa, sanguigna, impulsiva: desiderosa di una tranquillità famigliare che Guido apparentemente ripudia, ma in realtà agogna. Due adulti bambini, troppo impegnati a prendersi e lasciarsi, farsi dispetti e tradirsi, fare, insomma, gli eterni fidanzatini, concentrati ognuno sui propri desideri e sul desiderio dell’altro, senza il tempo di fare i genitori.

Il figlio maggiore, Dario, è l’autoritratto del regista: a dieci anni non fa altro che filmare la delirante quotidianità della propria famiglia, innamorato della pellicola e alla ricerca disperata di attenzione che naturalmente non riesce a ottenere. Sono troppo belli, focosi, affascinanti e affascinati i suoi genitori per potersi accorgere dei loro bambini.

Un duetto di bravura tra Kim Rossi Stuart, sempre troppo poco sfruttato dal nostro cinema, e Micaela Ramazzotti, magnetici e patetici a un tempo, una regia cristallina, ordinata, senza sbavature. Un omaggio di Luchetti alla pellicola come materia, ormai soppiantata dall’anonimo e uniforme nastro digitale, che qui rivive di vita propria in tutti i suoi formati: l’8 e il 16 mm utilizzati nei filmini girati dal piccolo Dario, il 35 per tutto il resto. Una satira un po’ nostalgica del fervore artistico, goffo e oggi quasi ridicolo, dei Settanta, quando “borghese” era l’insulto peggiore che si potesse rivolgere a qualcuno. Un ritratto di famiglia sincero, spontaneo, con tutte le tenerezze e le violenze del caso. Tutto questo c’è in Anni felici, che diverte, emoziona anche ma non riesce totalmente a colpire al cuore: troppa carne al fuoco, forse, troppa introspezione. Comunque, rimane un cinema pulito, piacevole, con grandi prove di recitazione che sarebbe bello, in Italia, vedere più spesso.

 

Voto: 2,5/4

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