Ariaferma di Leonardo Di Costanzo: un’analisi

Ariaferma: la recensione di Paolo Mereghetti del film con Toni Servillo e  Silvio Orlando - iO Donna

C’è una canzone di De Andrè che racconta di un carcerato che siccome non vuole respirare la stessa aria dei secondini decide di rinunciare all’ora d’aria, in Ariaferma succede l’opposto, i secondini e i carcerati si sfidano in una gara d’umanità dove lo sfiorarsi sembra determinare quanto in fondo tra criminali e guardie non ci sia una grande differenza.

Un film che parte con una tesi per scardinarla completamente. Ariaferma è un piccolo film, oscuro come la sua fotografia, fatto di primi piani, di un luogo scarno e quasi metafisico, la prigione e di grandi intenzioni, tra cui investigare l’animo umano.

Il cinema italiano non è mai stato particolarmente attratto dal raccontare le strutture penitenziarie, a parte qualche caso eccellente di registi importanti come Il generale della Rovere di Rossellini e Cesare deve morire dei fratelli Tavani, ma forse tra tutti il più sorprendente e più simile ad Ariaferma è Mery per sempre di Marco Risi. Il cinema americano invece ne  è ampiamente attratto e ha creato un vero e proprio filone “prison movie” che poi si è anche riversato nelle serie (OZ, Orange is the New Black e The Night Of). Il carcere, essendo un istituzione chiusa e totalizzante, permette più di altre di investigare l’animo umano: in una prospettiva comune che dice che il carcere disumanizza, qui la prospettiva viene ribaltata, in un ipotetico carcere che sta per essere dismesso rimangono pochi detenuti e pochi agenti, riducendo i numeri, gli agenti e i detenuti si mischiano e si conoscono. Allo stesso tempo i gruppi che prima erano così divisi dalle norme dell’istituzione cominciano a mischiarsi, sia tra i detenuti e tra gli agenti avvengono delle fratture: la più notevole tra l’agente Colletti, agente che non tratta i detenuti come pari e che non vuole mischiarsi con loro, ma anzi ne calpesta i diritti appena può, ad esempio quando ascolta il colloquio tra il detenuto Fantaccini e il suo avvocato, e l’umanissimo ispettore Gargiulo che tenta di normalizzare la situazione del carcere e di rendere l’istituzione più a misura d’uomo. Paradossale è che il film inizia proprio facendoci vedere gli agenti che cacciano, che si spalleggiano e che dicono “gli amici sono sempre gli amici”.

Il film ovviamente indaga la condizione dei detenuti nelle carceri dove il carcere sembra che vada a riempire i vuoti che la società non riesce più a ricoprire: un po’ ospedale psichiatrico (praticamente quasi tutti i detenuti prendono farmaci), un po’ casa per chi una casa non ce l’ha, centro d’accoglienza per i tanti stranieri che lo popolano (quasi la metà dei detenuti rimasti) e addirittura casa di riposo per i vecchi criminali. La domanda che viene posta allo spettatore è che tipo di società si è costruita e si vuole costruire dove l’istituzione carcere prende così tanto spazio, togliendolo ad altri servizi ed istituzioni, oltretutto fallendo come dimostrano velatamente i detenuti che in cortile si scambiano la droga ed in maniera eclatante con Fantaccini, ragazzo senza famiglia che viene rimbalzato da un’istituzione un’altra.

Il fatto che questo ipotetico carcere chiamato “Mortana” sia in un luogo sperduto e rurale della Sardegna, rende la situazione, ancora più metafisica e sospesa. Il clima di sospensione viene dato sia dal luogo, ma anche dalla situazione: il carcere chiuderà sul serio? Dove andranno i detenuti? Quando se ne andranno? Cosa rimarrà della struttura e dell’esperienza? Gli atri vuoti, gli oggetti buttati e i corridoio immessi creano proprio questa percezione, di sospensione, dismissione e di luogo non reale.

Un luogo metafisico, dove l’aria è ferma, non gira e non c’è cambiamento, potrebbe rappresentare il nostro paese, l’Italia, un paese in dimissione che preferisce chiudere piuttosto che cambiare, dove chiunque vuole scappare (anche gli agenti quindi anche chi un posto nella società c’è l’ha).

Centrale per il film l’incontro-scontro tra l’ispettore Gargiulo e il mafioso Lagioia (definito dall’agente Colletti “puparo”, uno che muove gli altri a suo piacimento, e lo farà pure qui) , i due personaggi avranno una sorta di attrazione-repulsione.

L’ispettore Gargiulo, la versione italiana di Tom Hanks nel Miglio Verde, già da subito ci viene presenta come un uomo di grande umanità, giustizia e pietà, nelle prima immagine del film racconta di come ha accudito una tortora che aveva ferito cacciando da ragazzino. Essendo quello con più anzianità sarà lui ha gestire il carcere, trovandosi per una volta a prendere decisioni, potrà decidere di creare un ambiente che rifletta i suoi valori e un clima di maggiore uguaglianza. Ovviamente questo è apprezzabile, tuttavia nel film non si capisce quanto queste decisioni siano la causa delle provocazioni di Lagioia, una sorta di delirio d’onnipotenza (perfino Sanna, un altro agente che è dalla sua parte, gli dirà che sbaglia) o una saggezza profetica.

Molto più interessante, sfaccettato e a tratti incompressibile è Lagioia, un uomo freddo, calcolatore e scaltrissimo, un sorta di Hannibal the Cannibal, che tuttavia pare farsi contagiare dall’umanità di Gargiulo, forse per non essere da meno, forse per non sfigurare con gli altri detenuti o semplicemente per dimostrare qualcosa all’agente.

Lo scontro si manifesta anche tra i due grandissimi attori, Toni Servillo e Silvio Orlando, ricordando in parte la sfida attoriale di Robert De Niro e Al Pacino in Heat – La sfida”. Il film permette ad entrambi di osare su personaggi che non hanno mai interpretato prima: Servillo, il buono, quando di solito fa personaggi con una doppia morale, Silvio Orlando che di solito fa il buono, il giusto e il padre di famiglia, invece di fare un personaggio sfaccettato ed ambiguo. Portandoli a confrontarsi con territori poco conosciuti per loro e per gli spettatori che li guardano, ne esce vincente Silvio Orlando.

Ma c’è un terzo personaggio, che smuove l’umanità di tutti, Angelo Fantaccini, interpretato dall’attore non professionista Pietro Giuliani, un ragazzo buono e fragile, che si è macchiato di un crimine orribile, ma il cui unico vero crimine, è quello di essere solo a questo mondo. È lui il vero detentore dell’umanità del carcere, non per niente si chiama Angelo, l’uomo che smuove in Lagioia la pietà, che permetterà al pedofilo Arzano di stare a tavola con gli altri e che quando lo stesso Arzano starà male lo accudirà come un figlio o un nipote creando un tableau vivant caravaggesco. Chissà quanti Angelo Fantaccini ci sono a questo mondo? Ragazzi dotati di un enorme umanità, ma con nessuno che si occupi di loro, che passano dalle case famiglia al carcere, che piangono quando si ricordano di essere soli, ma sono anche così feroci e arrabbiati da uccidere qualcuno.

Non è un caso che i detenuti vengano messi nella rotonda, che la posizione delle loro carceri sia in cerchio, che è la forma geometrica più egualitaria e paritaria, e non è un caso che il cambiamento avvenga attraverso il cibo, infatti lo scardinamento dei ruoli avviene quando Lagioia si mette a cucinare, perché il cibo è convivialità e conoscenza dell’altro. La tensione che rimane alta per tutto il film viene meno durante la cena, quando detenuti e agenti si siedono l’uno accanto all’altro e si ascoltano. Complice un black-out, gli uomini al buio sono tutti uguali, non hanno diverso colore della pelle, non si vedono i loro vestiti, gli uomini al buio si devo fidare solo del loro istinto e hanno tutti paura. In un altro momento di un’ultima cena caravaggesca grazie all’illuminazione con le torce, succederà l’impossibile: “Stasera gli agenti e i detenuti stanno mangiando assieme. Questa è una cosa che non ho mia visto in vita mia” dirà Lagioia. Per una sera, una sola, tutti saranno pari, in una sorta di ribaltamento dell’ordine precostituito e di teoria degli oppressi cattolica (il film fa vedere gli spazi inquadrati dall’alto e la musica usata è musica sacra in sardo), la storia dell’angelo che viene cacciato dal paradiso parla dei detenuti stessi, si può essere cacciati dal paradiso ma fare lo stesso qualcosa di buono. Ma alla fine la luce ritorna e con una scelta musicale di classe e ricercatissima ci viene messa “Claping music” di Steve Rich e con lei ritorna la tensione. La vera domanda del film è se un’istituzione può essere umana e mantenere se stessa perché non è lo è?

Caravaggio: la scienza rivela i segreti della “Cena in Emmaus” |  estense.com FerraraAriaferma, la recensione - Movieplayer.it

 

 

 

Alla fine ci sembra che Bertoni (detenuto che non vuole sedersi a tavola con Arzano e che non vuole condividere la cella con ”arabi, zingari e negri”) sia più simile a Colletti che Colletti a Gargiulo. Non capiamo invece cosa leghi Gargiulo a Lagioia e perché Gargiulo, così umano, così super partes, voglia prendere una distanza da lui: “Parliamo da uomo a uomo. Io e te non abbiamo niente in comune. Io la sera quando metto la testa sul cuscino sono sereno (…) ho la coscienza pulita, non ho fatto male a nessuno, non ho debiti con nessuno e questo mi da una serenità che tu non conosci”. Il loro rapporto fa smarrire e disorientare lo spettatore, i due sono d’accordo per far fuggire Lagioia? Lagioia ricatta Gargiulo? Si odiano per qualche motivo?

Il film ci dice per tutto il tempo che se nasci svantaggiato, in situazioni di disagio, senza una famiglia, per te sarà più facile finire in una struttura penitenziaria. Per poi rivelarci il vero colpo di scena del film e il motivo della repulsione-attrazione tra Gargiulo e Lagioia, che sono cresciuti nello stesso quartiere. Nulla è certo in questa vita? Guardie e ladri sono lo specchio della stessa medaglia? Non c’è una verità assoluta, solo un insieme di scelte che portano uno a fare la guardia, l’altro a fare il detenuto, alla fine scelte, componente famigliare e caso ci portano ad essere quello che siamo ma come Lagioia dice a Gargiulo “è tosta stare in galera, eh?” e Gargiulo: “Tu stai in galera, io no” e lui gli risponderà: ”Tu stai in galera, io no”. Tutti abbiamo le nostre galere e le nostre ore di libertà, nessuno è mai veramente libero, nessuno è mai veramente in gabbia.

Una regia che scava nei personaggi e nei luoghi, primi piani, angoli stretti, realismo registico, momenti quotidiani, il regista cerca la verità senza mai trovarla. Il finale non finale crea nello spettatore più domande che certezze, come è giusto che sia guardando questo film: per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.

Giulia Pugliese