Il cinema dopo il cinema 1. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010 di Roy Menarini

  

Con la scelta di indagare le mutazioni del cinema americano in un lasso di tempo limitato, in Il cinema dopo il cinema 1. Dieci idee sul cinema americano 2001-2010, Roy Menarini non fa una semplice operazione di ritaglio ma propone un metodo di percezione, o di visione potremmo dire appropriatamente, di quello che è l’“oggetto” cinema; considerato come un territorio di apparizione, una superficie di emergenza su cui affiorano elementi diversi.

Ciò che noi possiamo dire del cinema è sempre generato nel quadro di un sapere e di una condizione storica anch’essi in continua mutazione. Infatti, il titolo del libro non allude a un’ipotetica morte del cinema e al suo rinascere ma allo spazio di una trasformazione; che cambia molto di ciò che c’era prima eccetto il carisma, un’influenza indiscutibile, una vera e propria aura recuperata e assunta ora dal cinema nella sua totalità in quanto arte e non in riferimento a singole opere, dopo che, come giustamente aveva visto Walter Benjamin, era stata proprio la nascita del cinema (e della fotografia) a sancirne la scomparsa, cancellando unicità, autenticità e autorità dell’opera singola con la riproducibilità tecnica.

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Empirismo eretico di Pier Paolo Pasolini. Una nota

 

In Pier Paolo Pasolini lesperienza cinematografica è da considerarsi una ricerca, uno sforzo in direzione dellespressione, che assume le forme del dubbio quando ci si appresta a elaborarla concettualmente. Empirismo Eretico raccoglie alcune delle più importanti riflessioni pasoliniane in proposito: lopera, pubblicata nel 1972, contiene le note di teoria cinematografica del regista che, come in un lavoro interdisciplinare, si confronta con sociologia, linguistica, semiologia. Si tratta di un documento che tiene insieme tutti gli interventi dellautore anche in merito a lingua” e letteraturaa partire dalle nuove proposte che avanzano da quelle discipline.

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CLINT EASTWOOD. UN CINEMA CHE CI RIGUARDA di Adriano Piccardi

 

Il libro di Adriano Piccardi ha il suo primo merito nel fatto di non tracciare un “profilo” dell’autore di cui si occupa. Perché questo è un bene? Perché ci libera da tutta una serie di costrizioni a cui conduce l’idea stessa di autore, finendo spesso per essere un centro magnetico vicino al quale ogni argomentazione è costretta a piegarsi.

Sembra paradossale per un libro intitolato inequivocabilmente Clint Eastwood, ma è il sottotitolo a indicare la prospettiva di visione, facendo da sottotesto a tutta la riflessione che ne segue: l’espressione Un cinema che ci riguarda opera un cambio repentino di soggetto, è qualcosa di cui ci si rende conto solo a uno sguardo più prolungato, mentre si tiene il libro tra le mani e lo si osserva aspettando religiosamente – non si sa cosa – di aprirlo per la prima volta (questo è un rituale che i tanti feticisti del libro possono capire perfettamente).

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ADAM RESURRECTED di Paul Schrader (2008)

Adam ResurrectedAdam Steiner è un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio. Essendo un clown e un artista straordinario, si salva grazie alla perversione di uno degli aguzzini che per il suo divertimento lo costringe a vivere come fosse un cane. Alla fine della guerra Adam ha perso tutto, la sua famiglia e se stesso. Ed è così che noi lo ritroviamo nel 1961, da dove il film ha inizio: solo, internato per l’ennesima volta in una clinica israeliana per le patologie mentali che cura nello specifico i sopravvissuti. In quel luogo dove cerca di dimenticare di essere stato cane farà un incontro che lo costringerà a ricordare e imparare/insegnare a essere di nuovo umano.

Il film è bello per moltissimi motivi, ma il tratto che più colpisce è la maestria con cui il regista gestisce la complessità della storia, e della Storia, nella particolare relazione che lega il film stesso, come oggetto artistico-narrativo, al percorso intrapreso dallo stesso protagonista per elaborare quella che è la sua Storia.

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UP o la conquista dello spazio

“Visibilità? Illimitata”

Ellie in Up

 

“Un uomo è vecchio solo quando i rimpianti, in lui, superano i sogni”

A. Einstein

Verrebbe da chiedersi che cosa vedono Carl ed Ellie bambini quando scrutano l’orizzonte a occhi stretti dalla finestra della loro casa-dirigibile. Prendendo proditoriamente in considerazione il punto di vista di un personaggio digitale, è lecito pensare che il suo sguardo finisca per infrangersi sulla superficie liscia e cristallina dell’immagine, senza poter superare il rettangolo in cui ogni forma cinematografica è incastonata: il campo.

Al contrario, alla base di ogni logica visuale del cinema “dal vero” bisogna ammettere l’esistenza di un fuoricampo che ne definisca i limiti concettuali prima ancora che spaziali. L’assenza di fuoricampo sembra essere una delle caratteristiche proprie del cinema d’animazione. Almeno fino a ora.

Up (USA, 2009) di Pete Docter è uno dei capolavori della Pixar che genera un nuovo pensiero dell’immagine digitale. Il film è capace di donare all’animazione l’incanto del fuoricampo attraverso un costante lavorio di svuotamento del campo stesso, che, con intensità crescente, si porta in alto sino alla sua metaforica cancellazione.

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LA MIA VITA È UNO ZOO di Cameron Crowe (2011)

La-mia-vita-e-uno-zoo coverL’idea non era male, una favola certo, ma tratta da una storia vera: due ragazzi perdono la madre, il padre alle prese con tutta le difficoltà che questo comporta trova la via d’uscita comprando uno zoo in chiusura, pieno di bestie esotiche e incantevoli, e tenta di rilanciarlo. Sennonché le aspettative vengono una dopo l’altra disilluse, e forse solo la bellezza degli animali rimane.

Cameron Crowe, regista statunitense e autore di film come Jerry Maguire, sbaglia il tiro nel momento in cui, grossolanamente, crede che possano essere i due occhi acquosi di una tigre e i riccioli di una bambina a tenere in piedi un film che manca quasi completamente di spessore narrativo. La piattezza e la prevedibilità con cui le cose sono raccontate, sebbene il fatto in sé non sia tanto comune, si accoppia all’inconsistenza e alla banalità dei personaggi, tra i tanti esempi: l’adolescente difficile, che – guarda un po’ – riversa in macabri disegni la sua rabbia; il padre Benjamin, Matt Damon, che non riesce a guardare la foto della moglie, con immancabile riflesso accecante dello scatto in contro luce; e poi c’è Kelly, la determinata, bellissima e – ovviamente – single inserviente dello zoo, interpretata da Scarlett Johansson.

 

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LA GUERRA È DICHIARATA di Valérie Donzelli (2011)

04550713Si corre moltissimo nel film di Valérie Donzelli, a perdifiato, per riuscire a narrare un tempo che non aspetta. Romeo, Giulietta e il piccolo Adam sono i protagonisti di un racconto che annuncia già nei tre nomi il loro destino: una storia d’amore e un bimbo che, quasi fosse il primo uomo, si ritrova davanti, all’improvviso, la vita.

Due ragazzi s’incontrano e s’innamorano, scorrazzando per le strade di Parigi come in un film della Nouvelle Vague. Dopo un po’ hanno un figlio, che, intorno ai diciotto mesi, inizia a manifestare strani comportamenti. Le ipotesi angosciate del padre, il rifiuto naturale della madre, la paura che attraversa il tempo sospeso dell’incertezza e poi una partenza in fretta e furia per Marsiglia dove Adam sarà sottoposto a un importante esame, e dove si scoprirà la terribile verità di un tumore al cervello. Da essa, nonostante la corsa disperata di Giulietta tra i corridoi dell’ospedale, non è possibile fuggire: la guerra è dichiarata.

 

 

 

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