Beau ha paura di Ari Aster, la recensione del film con Joaquin Phoenix

Ari Aster è un regista che si è fatto notare, facendo il botto, con un horror iper sopravvalutato che partiva benino per poi schiantarsi miseramente: quell’Hereditary rigorosamente targato A24 (sinonimo di cinema lucido, stirato, patinato e fintamente autoriale, e di scelte furbissime congegnate per solleticare il palato e l’immaginazione del fruitore più occasionale e sprovveduto, tralasciando qualche lodevole eccezione come i bellissimi The Lighthouse, First Reformed, Pearl, Diamanti grezzi…) che già era un forte indicatore, se non una dichiarazione d’intenti, dell’abissale (e ridicola) pretenziosità connaturata alla poetica – chiamiamola così – di questo giovane filmmaker: un parabola orrorifica ultra citazionista come ce ne sono tante ammantata però di quell’aura solenne di cinema intimista e rigorosamente dilatato (perché il genere, ricordiamolo sempre, va “nobilitato”: non è accettabile così com’è) che funziona, per l’appunto, per il gusto non particolarmente sofisticato di un pubblico mainstream, ma che non può che far alzare il sopracciglio dello spettatore più allenato e abituato a masticare cinema autentico come quello di Roeg, Kobayashi, Kubrick, Bergman, Polanski, Russell, Żuławski (ma pure dello stesso Rob Zombie dei tempi d’oro, suvvia!), e di tutta quella serie di nomi abusati ed eccessivamente altisonanti da cui Aster attinge costantemente a piene mani (non che ci sia nulla di male, purché lo si sappia fare…) credendosi lì, al loro livello, di diritto (è ormai noto che la superbia di costui non conosce confini, ma è senz’altro in buona compagnia, nel panorama cinematografico attuale), ignorando completamente le coordinate del contegno e del buon senso, e dimenticandosi che Scorsese (il quale si professa fan di Aster: cosa non si deve fare per tenere vivo il cinema…), giusto per dirne uno, è approdato alle tre ore e mezza di The Irishman dopo cinquant’anni di onorata carriera (ma non è questo, o perlomeno non soltanto, il problema nodale: ma ci arriveremo).
Successivamente gira Midsommar, film comunque artsy ma sicuramente migliore, più insinuante, con un bel personaggio interpretato dalla (sempre) meravigliosa, florida e radiosa Florence Pugh, e con diverse cose pregevoli intrecciate ad altrettante pacchianate, a tanta ambizione sfrenata e mal riposta, ad una caterva di specchietti per allodole, simbolismi stagnanti e manierismi per allocchi: e quindi, in definitiva, anch’esso non troppo riuscito, colmo di problemi. Pregno, soprattutto, dicevamo, della boria sconfinata di chi si sente già arrivato, e già maestro. La verità, invece, è che Aster – qualcuno farebbe bene a dirglielo, e si dovrà per forza, prima o poi -, altro non è che un esempio lampante di talento mal gestito. Meglio: non gestito e basta. Egli, difatti, pare l’archetipo dell’artista sopravvalutato che andrebbe forzatamente tenuto a freno: uno che si lascia inghiottire dal proprio ego beandosene, e che è ossessivamente guidato da una presuntuosità elefantiaca capace di polverizzare la (scarsa) tensione e di fagocitare implacabilmente tutte le atmosfere, le sequenze e le trovate efficaci che (almeno fino a questo momento) si potevano rintracciare, pur faticosamente, all’interno della sua breve ma eloquente filmografia.
E qui, con quest’ultimo titolo in arrivo sui nostri schermi, cominciano seriamente le dolenti note: perché se il sospetto che Aster fosse un regista un po’ cialtrone già c’era, ora possediamo la certezza. Questo Beau ha paura – che gioca proprio in un altro campionato di arroganza, sfacciataggine, bruttezza -, sorta di pseudo commedia satirico-esistenzialistica con al centro un povero, onnipresente, spaesato e lobotomizzato Joaquin Phoenix ben lontano (non per suo demerito) dai risultati più eccelsi del suo percorso illustre, è di fatto un calvario kitsch paragonabile forse solo a Tenet di Christopher Nolan (altro maestro di presunzione prosopopeica), nonché, a tutti gli effetti – giusto per mettere in guardia quei temerari che sceglieranno di sacrificarsi -, un grottesco manuale di psicologia posticcia che rievocherete come una delle visioni più sofferte ed estenuanti delle vostre vite.
Chi scrive, infatti – escludendo i balbettii di Iñárritu, che non fanno testo -, non riesce sinceramente a ricordare, almeno in tempi recenti, un film così sciocco, caotico, ripetitivo, derivativo, masturbatorio, sfibrante, tronfio, farneticante (una prova di forza, un sequestro di persona, un supplizio di Tantalo in formato filmico), che trova il coraggio di scimmiottare Charlie Kaufman e mille altri vagando patentemente senza meta e senza nulla da raccontare fino alla soglia dell’esasperazione, allo stremo, all’irritazione, al rigetto; e con gli unici momenti vagamente interessanti, in cui possiamo anche solo sentire un soffio di cinema, percependo quella dose minimale di partecipazione, di pathos, di sostanza e dimensione umana da cui non è possibile prescindere, rappresentati dagli ambigui episodi dell’infanzia del protagonista, cioè quando la memoria prevale sulla lente del delirio mentale: eventi che, sfortunatamente, occupano un minutaggio assolutamente ridotto, e sostanzialmente irrilevante.
Il fatto è che Beau ha paura comincia, e subito subodoriamo la supponenza, l’inconsistenza, la ruffianeria più spinta: anche se una chance gliela si vuole – e gliela si deve – dare. Epperò, poi, il film prosegue in maniera sempre più esiziale, didascalica, stordente, ottundente; peggiora rovinosamente e riscrive il concetto di noia accumulando una valanga di trovate insulse e visivamente modeste che spianano la strada ad un segmento centrale che è un qualcosa di così pacchiano, infecondo, autocompiaciuto, indigesto – oltreché, ripetiamolo, infinito – da suscitare in chi guarda il fastidio più urticante, e che confluisce in un finale (esattamente come in Babylon, altro sguaiato pachiderma vittima del narcisismo incontenibile di chi l’ha realizzato) che è un oltraggio allo spettatore e alla sua pazienza, all’intelligenza, al senso della misura e della decenza: una (lunghissima) chiusa che affoga nel trash più goffo, stantio ed esibito, e che scade in un umorismo greve, crasso e stridente che non fa che confermarci il vuoto penumatico e programmatico di tutto questo: di un’operazione inane, di un cinema che non è cinema ma puro esibizionismo puerile, di un ragionamento che non è ragionamento ma solo stile, manierismo, sterile formalismo, fumo gettato negli occhi, paradigmatica esemplificazione dell’egotismo di un cineasta che non solo avrebbe tanto bisogno di qualcuno che gli facesse scoprire la moviola (una volta…) e che, semplicemente, lo fermasse, ma che lo inducesse finanche a riflettere sulla sua profonda inconcludenza, su quanto è inerte e vaneggiante la sua odissea di cartongesso, su quanto è patetico il suo epilogo, il suo punto di (non) arrivo: su quanto è piatto, vanesio e poco affascinante il suo sguardo, il suo mondo, il suo immaginario di teste spappolate e rimandi lynchiani involgariti, il suo omonimo e robotico (anti?)eroe che nemmeno un grande attore può sostanziare icasticamente. E sul punto fondamentale che forse, se si ha veramente qualcosa da dire, come direbbe qualcuno (cosa di cui dubitiamo fortemente, pur riconoscendo che di suggestioni perturbanti, e di intuizioni anche teoricamente intriganti, nel suo cinema precedente, ce n’erano: ma non può essere sufficiente), sarebbe davvero il caso di ridimensionarsi, di fare un passo indietro, di aggiustare il tiro. Di darsi una regolata, ecco. Cosa che, crediamo, solo un sonoro e meritato flop potrebbe riuscire a concretare.
Voto: 1/4