Berlinale 2017: FINAL PORTRAIT di Stanley Tucci, WILD MOUSE di Josef Hader

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FINAL PORTRAIT di Stanley Tucci (fuori concorso)

Giunto al suo quinto lavoro da regista, l’attore Stanley Tucci si cimenta in una sfida delicata ma stimolante: raccontare l’eccentrica personalità di Alberto Giacometti (scultore e pittore svizzero) isolando un breve segmento della sua vita per farne il manifesto di un’intera esistenza. Siamo nella Parigi del 1964 quando un critico americano di nome James Lord (interpretato da Armie Hammer) fa visita nello studio dell’artista (Geoffrey Rush). Qui, l’uomo chiederà al giovane di posare per lui così da poter realizzare il ritratto che dà titolo al film. Tuttavia la realizzazione del quadro impiegherà molto più del previsto.

Sicuramente apprezzabile per il taglio originale e insolito con cui Tucci prova a sviscerare il personaggio storico, Final Portrait è un film debole e con infiniti problemi, a cominciare da una regia inadeguata e insicura che stordisce la visione dello spettatore dopo pochissimi minuti. Tucci infatti adotta un taglio molto ravvicinato e cerca di asfissiare i suoi personaggi (e il pubblico con loro) provando a inseguire una sorta di unità di spazio che concede al film pochissimo respiro. Una simile scelta si rivela però infelice poiché gestita con mano inesperta. A supportare il tutto mancano persino le interpretazioni dei protagonisti: Rush fa quel che può per migliorare il film, ma Hammer è completamente fuori parte.

Voto: 1,5/4

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WILD MOUSE di Josef Hader (concorso)

Nel suo esordio cinematografico alla regia di un lungometraggio, l’attore comico austriaco Josef Hader scrive, dirige e interpreta un personaggio pienamente calzante per la sua personalità. Georg è un critico musicale improvvisamente licenziato dal suo giornale. Temendo di dire la verità a sua moglie, l’uomo cerca di arrangiarsi come può per nascondere il tutto e trova impiego al Prater (storico Luna Park di Vienna) gestendo insieme a un vecchio compagno di scuola un ottovolante per famiglie. Tanta la carne al fuoco (forse troppa) in questo lavoro, a cominciare dalla radiografia della middle class odierna sino alla riflessione costante legata all’incapacità comunicativa che sembra aver invaso la nostra società. Quella di Hader però è in primo luogo una commedia nera che cerca di portare agli estremi la narrazione legata alle disavventure del suo protagonista. Un vortice profondo e senza fine all’interno del quale il grottesco prenderà sempre più piede. Il tutto funziona e l’opera diverte senza tuttavia brillare mai quanto dovrebbe. Quello che, a conti fatti, non torna è proprio un apparato registico incapace di gestire un flusso d’insieme degno di nota. Hader spesso sorvola su alcuni episodi in maniera sbrigativa e superficiale preferendo accennare alcuni momenti o abbozzare personaggi che poi trascura colpevolmente. Nulla da rimproverare sulla recitazione ma in cabina di regia e di scrittura sarebbe stato meglio affidarsi alla collaborazione di qualcun altro.

Voto: 2/4