BLADE RUNNER 2049 di Denis Villeneuve (2017)
In tempi di franchise cinematografici sfruttati sino all’isterilimento, reboot eretici e remake che gridano vendetta in un progressivo appiattimento dell’inventiva hollywoodiana, quella di un seguito dell’immortale Blade Runner 35 anni dopo, con Ridley Scott alla produzione e Denis Villeneuve chiamato a raccogliere il testimone in cabina di regia, sembrava una scommessa azzardatissima, persa in partenza. Preceduto da un’attesa lancinante, il sequel di uno dei più grandi film di fantascienza di sempre (nato a sua volta da un romanzo di Philip K. Dick) si rivela invece una piacevole sorpresa, un’opera di maestosa complessità che riscrive le regole per riaggiornare saghe e classici del passato per il pubblico contemporaneo. Ambientato un trentennio dopo gli eventi del primo film, Blade Runner 2049 vede protagonista un nuovo cacciatore di replicanti, K (un Ryan Gosling di stupefacente bravura), alla ricerca di Rick Deckard (Harrison Ford) e alle prese con una scoperta clamorosa che potrebbe cambiare per sempre i rapporti tra umani e androidi e i destini di un mondo in disfacimento.
Monumentalmente ambizioso, il film di Villeneuve (che si riscatta dopo il poco convincente Arrival, sua precedente incursione sci-fi) ha infatti il pregio di essere intelligentemente fedele all’immaginario e all’iconografia del primo film, pur rifiutando nettamente qualsiasi vocazione nostalgica o la vacua tentazione di un sequel-remake. La sceneggiatura che tocca vette di grande profondità (scritta da Hampton Fancher – già autore di Blade Runner – e Michael Green), la grandeur visiva che grazie alla sublime fotografia di Roger Deakins restituisce una Los Angeles ancora più decadente e fosca e squarci di allucinata visionarietà, l’imponente colonna sonora di Hans Zimmer e Benjamin Wallfisch che gestisce il confronto con le celebri partiture di Vangelis: il tutto è accuratamente studiato in un film generoso il cui coraggio rende perdonabili alcune imperfezioni e, forse la pecca più grande, lo scarso minutaggio concesso a Harrison Ford (comunque personaggio chiave).
Purissimo cinema d’autore agli antipodi del blockbuster tritacarne e macina-soldi di tanto cinema contemporaneo, Blade Runner 2049 è una sfida per il pubblico più mainstream con la sua smisurata lunghezza e la scarsità di scene action che lasciano spazio a tempi dilatati e a un potente impianto filosofico che torna a interrogarsi sul concetto di umanità e rende quel futuro distopico brulicante e in decomposizione sinistramente ispirato alle pagine di Dick credibile oggi come 30 anni fa. Per uno spettatore, invece, in cerca di un cinema ancora in grado di toccare le sue corde più profonde, il film è un viaggio affascinante che non può lasciare indifferenti, specialmente grazie a un apparato scenografico davvero suggestivo e a sequenze già cult, come la scena erotica tra reale e virtuale o lo scontro in una Las Vegas in rovina tra gli ologrammi che celebrano il passato d’oro della cultura americana. E, se alcuni nodi lasciati volutamente in sospeso sembrano preludere a ulteriori sequel che si spera possano mantenere gli stessi standard qualitativi, il film offre un altro aspetto lodevole. Finalmente ci troviamo di fronte a un film di fantascienza con una netta dominanza di presenze femminili (anche se già Mad Max: Fury Road segnò un passo importante in questo senso): la romantica Joi di Ana De Armas, la glaciale Madame di Robin Wright, la spietata Luv di Sylvia Hoeks (pessima in La migliore offerta, qui bravissima e capace di rubare la scena al villain Jared Leto), le risolutive Mariette e Freysa di Mackenzie Davis e Hiam Abbas sono tutti personaggi già iconici e accuratamente tratteggiati che si ergono a fianco della potente figura tragica di K/Gosling, oltre gli stereotipi del genere.
Voto: 3/4