C’ERA UNA VOLTA IN ANATOLIA di Nuri Bilge Ceylan (2011)
Parte ambizioso, l’ultimo film di Nuri Bilge Ceylan, con quel titolo che pare evocare sia toni fiabeschi che i capolavori di Leone. Turco nato a Istanbul classe 1959, Ceylan è al suo sesto lungometraggio ed è ormai un frequentatore assiduo del Festival di Cannes, dove ha già vinto diversi premi: dal Grand Prix Speciale della Giuria più Palma d’oro per la Miglior interpretazione maschile nel 2003 con il film Uzak al premio per la Miglior regia nel 2008 con l’acclamato Le tre scimmie.
Anche C’era una volta in Anatolia ha convinto i giurati dell’edizione 2011, che gli hanno attribuito un altro, meritato, Gran Prix. A un anno da riconoscimento, gli schermi italiani hanno finalmente l’onore di ospitare questo film, presentato da Andrea Occhipinti e distribuito dalla Parthénos.
Si tratta di un poliziesco anomalo, dai tempi dilatati tipici del cinema d’autore mediorientale (come insegna la lezione di Kiarostami), che vede una squadra guidata da un procuratore (Taner Birsel), un commissario (Yılmaz Erdoğan) e un medico (Muhammet Uzuner) impegnata in un’indagine per omicidio. In una notte buia e surreale, seguendo le indicazioni di un assassino confuso e smemorato (Firat Tanis), l’équipe cerca il corpo della vittima sepolto da qualche parte nelle steppe di un’Anatolia sconfinata e deserta. A guardare bene, per tornare al titolo, la prima parte del film – quella, appunto, dell’indagine notturna- contiene in sé qualcosa di favolistico e meraviglioso: la ricerca nel buio illuminato solo dai lampi del temporale, le misteriose e inquietanti sculture, l’ “apparizione” quasi miracolistica dell’angelica ragazza che nel piccolo villaggio offre luce e ristoro ai viaggiatori. Ma è solo un aspetto di questo film denso e affascinante, dove l’intreccio giallo è un mero pretesto per indagare le inquietudini personali dei tre protagonisti, alle prese con solitudini, perdite o problemi familiari che emergono via via nei dialoghi (di rara finezza) e appaiono ancora più disperate nella desolazione della steppa anatolica dove il tempo sembra essersi fermato. Per quanto, infatti, l’ambientazione sia l’elemento più suggestivo e in un certo senso straniante per lo spettatore occidentale (ma non aspettatevi alcuna traccia di esotismo), è proprio la sceneggiatura, scarna ma efficace, a costituire il punto di forza del film e a renderlo una sorta di dramma alla Cechov, autore amatissimo dal regista (come dimostra la struttura ripartita in tre atti e la presenza di tre protagonisti).
Altro grande pregio del film è senz’altro la recitazione di tutto il cast e dei tre attori principali in primis (Muhammet Uzuner nei panni del dottor Cemal, in particolare, è davvero un volto da tenere d’occhio). Ceylan, poi, è un regista capace di fondere egregiamente lirismo e ironia, senza trascurare la rappresentazione del dolore e dell’orrore quotidiano (nella raggelante eppure empatica sequenza dell’autopsia). Alla fine, non è tanto la risoluzione del caso a interessare il regista, quanto la rappresentazione di questo mondo isolato e profondamente umano nella sua disperazione, un mondo dove protagonisti sono gli uomini ma le donne, assenti o silenziose, e i bambini, vittime innocenti costrette a portare il peso dei peccati dei padri, sono i veri personaggi chiave.
Con i suoi 150 minuti di durata, C’era una volta in Anatolia, pura essenza di cinema d’autore, può senz’altro apparire estenuante al grande pubblico. Ma a questo stesso grande pubblico va detto che sarebbe giusto e salutare prendersi ogni tanto una pausa dai roboanti blockbuster hollywoodiani per vedere come si può fare buon cinema con due soldi e un pugno di bravi attori in un paese così lontano e così vicino, che vuole disperatamente affacciarsi sulla scena politica ed economica europea e che ancora noi conosciamo così poco.