Diamanti grezzi di Josh e Benny Safdie, la recensione

Su Netflix

Un grande film dovrebbe possedere almeno tre requisiti fondamentali: sondare l’esperienza umana, farci identificare con gli individui che mette in scena (anche se con noi, quantomeno all’apparenza, non hanno nulla da spartire) e restituirci l’anima e la personalità di chi sta dietro la macchina da presa, ciò intendendo non attraverso sterili virtuosismi à la Sam Mendes, ma tramite la precisione e l’essenzialità dello sguardo. Diamanti grezzi (Uncut Gems) è un film che racchiude meravigliosamente tutte e tre le componenti.

Perché in questo Carlito’s Way trucido e psichedelico cui dona l’acqua della vita un immenso Adam Sandler mai così tragico e sgargiantemente sublime, è racchiusa tutta l’inesprimibile contraddittorietà delle nostre vite e delle più o meno deliranti battaglie che ognuno di noi quotidianamente combatte, delle debolezze e delle mancanze, del furore e della malinconia. In una parola: dell’inadeguatezza.

E quanta straziante dolcezza ed umanità, quanta disperata e toccante voglia di fare il salto per emergere dal grigiore svilente della quotidiana mediocrità, quanta encomiabile bravura nel trovare un ritmo allucinato e vorticoso in cui tutto combacia con precisione chirurgica alimentandosi e compenetrandosi vicendevolmente e ogni scelta s’intreccia e si sovrappone in un flusso febbrile ed ininterrotto di musica, gesti, suoni, parole, scorrere impetuoso e contagiante del denaro e del tempo.

I fratelli Safdie, che non sbagliano un colpo e che sono una stupefacente ed inevitabile conferma, maneggiano la materia narrativa come maestri navigati, scelgono volti inediti e perfetti (colpo di genio trasfigurare in questa maniera il personaggio reale e bigger than life di Kevin Garnett), si destreggiano abilmente fra scarti di ritmo e di stile, omaggi e citazioni, virate di tono e lampi di fantasia, prorompenti alfieri di un cinema lisergico e vorticoso, libero e selvaggio, barocco e rutilante che ti prende alla gola e non ti lascia più, ti scuote e ti confonde, ti ammalia e t’induce a riflettere su te stesso e su ciò che guardi lasciandoti addosso la sgradevole sensazione di una gelida coperta di fango ma regalandoti al tempo stesso un inebriante e disperato sorriso: un cinema sovreccitato e genuinamente anarchico che ti sbatte in faccia tutto il caos e la soffocante violenza del mondo ma anche la tristezza e la tenerezza di un goffo individuo perennemente ai margini che ricorda a tratti la drogata frenesia dell’Emile Hirsch di Killer Joe, uno dei tanti sgraziati ed amabili perdenti continuamente sospinti verso il basso da miserie e difetti che si ripercuotono fatalmente su ognuno di noi e con i quali è impossibile non identificarsi se non altro per semplice compassione ed umano sentire.

Un personaggio, il suo Howard, in grado di riconsegnarci una confusione che è parte integrante e inestricabile dell’esistenza: un inguaribile e caracollante loser col vizio e la foga delle scommesse costantemente accompagnato da un tessuto sonoro che ne segue ed esalta le tragicomiche gesta nell’estatico e chimerico inseguimento della scommessa della vita, quella che potrebbe cambiare tutto o farlo sprofondare ancora più giù, nella burella della perdizione, in un flusso stroboscopico capace di calarci nel suo mondo e nella complessità della sua psiche cogliendo perfettamente l’anima e la poesia di una New York lugubre e kitsch che da anni non si vedeva così vera e pulsante nel suo fuligginoso ed infettante squallore.

Perché quegli scatti nevrotici e quelle corse contro il tempo tanto frenetiche quanto vane, gli amori e i sentimenti sbilenchi, le frustrazioni e il disagio penetrante che non riusciamo a comunicare a chi ci sta intorno, sono cose che ci toccano da vicino e che sono parte integrante del nostro percorso di spettatori e di esseri umani: per questo ci appassioniamo e parteggiamo con la vitalità di questo viscido omuncolo umano, troppo umano che pecca costantemente di ὕβϱις e per questo fino al termine della corsa vorremmo istintivamente allontanarlo dal pericolo imminente salvandolo dalla catastrofe, dall’ineludibile resa dei conti di uno di quei finali febbrili e sferzanti che non si vedevano da tempo e che t’incollano alla poltrona mozzandoti il fiato, di quelli a cui assisti stringendo i pugni con il cuore in gola e facendo letteralmente il tifo anche se dentro di te già sai come andrà a finire.

I Safdie, come sottolinea eloquentemente Scorsese, sono dei banditi. Banditi dello sguardo e del linguaggio filmico, due ragazzacci estrosi, brillanti e ardimentosi che hanno assimilato e immagazzinato il meglio del cinema che li ha formati e che hanno sapientemente riplasmato in un piccolo capolavoro di grazia e di tensione che pare uscito da un’epoca perduta eppure mai sterilmente manierista o fine a se stesso (Dio benedica la lucente consistenza della pellicola), un gioiello multicolore che riporta alla mente l’energia elettrica e rigenerante di Mean Streets ma anche gli splendidi barocchismi del miglior De Palma (occhio alla meravigliosa sequenza notturna presa di forza da Body Double), l’intima e toccante universalità del cinema di Cassavetes e la poesia del degrado di Harmony Korine.

Perché l’opale, che racchiude il segreto dell’universo e che viene dalla terra, è parte di Howard e del nostro percorso di individui, delle sconfitte e dei baluginanti fulgori di gioia che costellano le nostre vite e che si dissolvono nel conclusivo movimento di macchina che si ricollega all’infinità del cosmo scavando dentro Howard e dentro di noi, nella sua e nella nostra essenza, perché polvere siamo e polvere ritorneremo.

Voto: 3½/4