È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, la recensione
È davvero molto raro che, al di là di qualunque suggestione o provocazione più o meno sentita, un regista si metta a nudo completamente. Può succedere che riproponga parti, spunti o estratti più o meno evanescenti della sua vita e dei suoi trascorsi – anche, e spesso, mentendo – filtrati dallo specchio della sua fantasia o pescati dal porto sepolto dei propri immaginari di riferimento (vedasi in questo caso, sopra tutti, Fellini, naturalmente: maestro venerabile e dichiarato dell’ormai consolidato talento napoletano), o che accarezzi, attinga o afferri qualcosa di più o meno tumulato dai meandri dell’inconscio per integrarlo o intrecciarlo alla storia che sceglie di raccontare, ma molto raramente (se non mai, diciamolo) capita che un regista dica: “Ecco, questo sono io, e questa è la mia storia”.
Mai un regista, a memoria, si era messo così completamente, esplicitamente e spudoratamente a nudo come Paolo Sorrentino, il quale oggi, dopo una carriera di pellicole oscillanti fra l’eccelso e il (molto) buono, firma quello che sembra in tutta evidenza il vero capolavoro della maturità: un film audace, straordinario e personalissimo, limpido e complesso al tempo stesso come solo i capolavori destinati a rimanere sanno essere.
Sorrentino è un regista che nell’arco del suo ormai ventennale percorso d’artista ha affrontato ed elaborato con encomiabile coraggio, deformandolo grottescamente, ogni tema immaginabile e spinoso possibile: la solitudine, la morte, la morale, la colpa, il disagio esistenziale, il crimine, lo squallore, la dipendenza, il disincanto, la depressione, la vecchiaia, l’alienazione, il senso d’angoscioso franamento delle società benestanti cui giocoforza apparteniamo tutti, l’impoverimento e la decadenza culturale che affligge questo Paese, il vuoto e il buco nero del berlusconismo.
Questa volta, però, prende di petto due dei temi più delicati e dolorosi della sua e probabilmente di ogni vita umana, ovvero i lutti che ti cambiano, e il cammino per la crescita: la presa di coscienza di sé stessi; e lo fa approdando ad una forma di grazia mozartiana, ariosa, vagamente incantata, che ci restituisce l’unicità di quei momenti in maniera intima e straziante ma sempre con il giusto e precisissimo distacco, raggiungendo in tal modo un equilibrio cristallino, sussurrato, geometrico, alchimistico, perfetto: ed è proprio questa forma di quieta e compassata distanza, a permettergli di affrontare temi gravosi e molto privati in maniera inedita e mai banale.
C’è di tutto, in questo film barocco ma piano e levigato al tempo stesso: la forma dell’acqua, dell’acqua del mare, che è liquido amniotico e placenta, origine della vita e di tutte le storie e creature che esso incorpora; le atmosfere divagate e il soave ennui di certe estati lontane ma mai dimenticate; seni felliniani di donne bellissime; forme meravigliose di sensualissime zie che possiedono la luccicanza; l’azzurro marino (ancora) della divisa del Napoli e degli occhi acquosi di un San Gennaro übercool che arriva in Rolls-Royce nel cuore della notte (grande Enzo Decaro); il miraggio sfumato, spettrale e forse opprimente (in quanto inafferrabile) di Roma; Fellini in carne ed ossa, in tralice (e principalmente 8½, all’inizio, con l’imbottigliamento stradale dal quale Guido fuggiva librandosi nel cielo, Amarcord, I vitelloni, Giulietta degli spiriti, e in generale qualunque cosa abbia mai fatto), ma anche Sergio Leone, Adnan Khashoggi e sexy consorte, Proust (checché se ne dica, è la sua Recherche), Pino Daniele, l’inarrivabile maestosità di Toni Servillo, che di Sorrentino è – citando le sue stesse, bellissime parole – fratello maggiore promosso a padre spirituale sul campo; la naïveté, il candore e la bravura toccante della rivelazione Filippo Scotti e la magnifica levità di Teresa Saponangelo, seguiti a ruota da nuances, vezzi, bassezze e bizzarre sottigliezze di tutto questo mirabolante e poliforme cast sapientemente riunito per quella che sembrava e si è rivelata a tutti gli effetti l’occasione della vita, professionale e non solo (e osservando i membri di questa surreale ma concretissima famiglia partenopea – che è poi ogni famiglia: perché non sai mai cosa accade veramente all’interno delle case, come asserisce a un certo punto uno dei personaggi chiave e più belli del racconto – si può intuire facilmente l’origine di molti tic, rimandi, aforismi, disillusioni, sentenze e tratti caratteriali del Sorrentino che conosciamo).
E poi, naturalmente, lui, il più grande calciatore di ogni tempo: Diego Armando Maradona, El Pibe de Oro, rifugio sicuro dagli scogli e dalle amarezze dell’età adulta: l’uomo semi divino che a Paolo ha porto indirettamente la mano quasi quanto o forse più del cinema stesso, quel cinema che è forma d’arte vitale e suprema che ha salvato – e questo posso affermarlo con certezza – molte delle nostre vite di spettatori e sognanti cinefili.
Paolo Sorrentino non copia nessuno: si ispira – anche smaccatamente, e non facendone certo un mistero – ai suoi modelli, come De Palma faceva con Hitchcock: li spreme, li plasma e li rielabora facendoli propri, costruendoci sopra un universo che è suo e suo soltanto, privandosi qui per la prima volta, volontariamente e radicalmente, di ogni orpello, carrello, effetto e tecnicismo superfluo per arrivare alla pura essenza delle cose, regalandoci un’opera che condensa magistralmente tutto il disagio, il dolore e la bellezza dello stare al mondo in centotrenta splendidi, tersi e illuminanti minuti, spalancando finestre su ricordi cruciali, profondi, sfuocati e a volte confusi della nostra infanzia e dei nostri percorsi individuali, sulle persone che abbiamo conosciuto, ammirato e forse amato, sulle strade che non abbiamo imboccato e su quelle tortuose che ci hanno condotti ad essere quello che siamo. Su ogni tassello imprescindibile di quel viaggio bellissimo e sorprendente ma anche amaro e mai scontato che è la vita: un prodigio al quale si assiste rapiti e stupefatti, come in un vagheggiamento, irretiti dai suoi colori e dalla sua lingua semplice e universale, proprio come il giovane Paolo, perso in quell’insostituibile camera dei sogni elettrici che è la sala cinematografica, a guardare incantato i film del suo futuro maestro Antonio Capuano, e noi, di riflesso, a guardare trasognati il suo, cullati dalle onde celestine del mare napoletano che fanno tuff, tuff, tuff, e dal quale non ci si vorrebbe mai svegliare.
È stata la mano di Dio è un film di padri, madri, amici, zie, nonni, fratelli, munacielli. Un’ode, in una parola, all’indistruttibile potere dell’amore: quella forza sublime, liquida e imprevedibile capace di modificare l’andamento delle cose umane e che, combinata alle passioni più autentiche e concrete, ci permette di sognare, di guardare avanti e di muovere le stelle, di travalicare gli ostacoli e di dare un senso a questo nostro fugace, misterioso e apparentemente insensato passaggio terreno; un film solo ad uno sguardo superficiale più piccolo e contenuto, ma che è in realtà un grande, folgorante capolavoro aereo, acquatico e smisurato di una ricchezza di temi e contenuti impressionante che indaga con la delicatezza, il rigore e la millimetrica giustezza dei maestri più grandi la disperazione, lo spaesamento, la paura elettrizzante e la libertà dell’alto mare aperto (ché anche un eccesso di libertà, sembrano suggerirci certe immagini e certe svolte, può essere pericoloso), il torbido e la meraviglia, il sacro più alto e il profano più squallido (come sempre nel cinema sorrentiniano, e anche in questo sta la sua bravura, la sua profonda conoscenza della natura umana e l’acutezza del suo sguardo), i turbamenti sessuali e le prime proiezioni romantiche, il sentimento amoroso e quelle inevitabili, dolorosissime incrinature dei rapporti genitoriali che ogni adolescente ben conosce, il conflitto – con se stessi e non – e la dolcezza, la passione e la malinconia, il furore e la speranza, la saggezza dei più grandi e la silenziosa e dirompente potenza della parola, della poesia che ci salva da tutto, anche dai tonfi più sordi e dagli orrori più impensati (ed ecco, puntuale come un orologio, Dante): un miracolo tecnico e artistico in grado di passare fluidamente, senza disunirsi, come i sussulti e l’incresparsi delle onde solcate dai gommoni clandestini che Paolo/Fabietto osserva ammaliato in lontananza, dalla visionarietà e dalla ricercatezza che ha sempre contraddistinto il suo stile al naturalismo più sobrio e terrigno (con un’attenzione ai dettagli e agli ambienti atipica e sopraffina ma non maniacale: vezzo tipico di quei registi che si smarriscono nei gingilli perdendo di vista le cose importanti), dalla commedia più genuina e scanzonata al dramma più abissale e soffocante, dall’onirismo più lirico alle gioie e debolezze quotidiane più prosastiche, fino a toccare – con sguardo sempre tenero e mai giudicante – i veri e propri squallori e le miserie più basse della realtà di tutti i giorni.
Perché la realtà è scadente, diceva Fellini, che benedice ridacchiando dall’alto con la sua vocina bambinesca. Ed è senz’altro vero, ma il cinema di Sorrentino la migliora notevolmente.
“Credo che quando uno parla delle cose che conosce, e parla di se stesso, e parla della propria famiglia, del proprio paese, della neve, della pioggia, della prepotenza, della stupidità, dell’ignoranza, delle speranze, della fantasia, dei condizionamenti, politici o religiosi, quando uno parla delle cose della vita in maniera sincera, senza pretendere di voler ammonire nessuno, e senza sbandierare pesantemente filosofie, senza mandare messaggi, quando uno ne parla con umiltà e soprattutto con un senso proporzionato delle cose, credo che faccia sempre un discorso che tutti possono capire, tutti possono far proprio. Mi sembra che i miei personaggi, i personaggi di questo piccolo borgo, proprio perché sono così, limitati a quel borgo, e quel borgo è un borgo che io ho conosciuto molto bene, e quei personaggi, inventati o conosciuti, in ogni caso li ho conosciuti o inventati molto bene, diventano improvvisamente non più tuoi, ma anche degli altri.”
Federico Fellini
Voto: 4/4