GANGS OF LONDON, la recensione
Su Sky
Da Piccolo Cesare a Il padrino, dagli Scarface a Gomorra, difficilmente il pubblico smetterà di essere affascinato dall’universo criminale e dalla figura romantica del gangster, che pure cinema e tv hanno già raccontato in infinite salse. L’ultimo tassello di questa infinita rappresentazione del Male e delle pieghe oscure della società capitalistica è racchiuso in Gangs of London, serie originale Sky creata da Gareth Evans e Matt Flannery che rappresenta uno dei prodotti imperdibili del 2020 e certamente tra i più grandiosi degli ultimi anni. La vicenda prende il via dall’omicidio del potente boss Finn Wallace (Colm Meaney): la sua morte misteriosa scatena la vendetta della famiglia ora guidata dal figlio Sean (Joe Cole) con l’appoggio del braccio destro Ed Dumani (Lucian Msamati), e disgrega il fragile e capillare sistema di alleanze tra i Wallace e le gang londinesi, in un’esplosione di violenza incontrollata. Intanto, il poliziotto sotto copertura Elliott (Sope Dirisu) cerca la fiducia della famiglia Wallace per scardinare il complesso sistema criminale che governa la capitale britannica.
Se la faida tra bande può sembrare un topos sin troppo abusato nel genere, la serie di Evans e Flannery riesce a essere originale in almeno due elementi. Anzitutto, la potenza del suo impianto corale densissimo di personaggi che esplora la ramificata malavita londinese attraverso un crogiolo di etnie: ci sono irlandesi, afro-discendenti, curdi, pakistani, albanesi, nomadi gallesi, nigeriani e persino mercenari danesi, tutti ritratti oltre gli stereotipi razziali e accomunati da una vita basata sulla ricerca del potere e su un utilizzo efferato della violenza. Si scoprirà presto che i villain più pericolosi, in realtà, non sono questi spietati trafficanti e delinquenti, ma silenziose presenze che si posizionano ben più in alto sulla scala sociale.
L’altro elemento sostanziale e distintivo è proprio la spettacolarizzazione della violenza, che tocca vette di brutalità con pochi eguali in un prodotto seriale. Il merito è di Gareth Evans, il regista, sceneggiatore e produttore gallese che forse più di ogni altri in questo momento sta riscrivendo i parametri dall’action e noto per Apostolo ma soprattutto per i film girati in Indonesia, su tutti il cult The Raid. In virtù dell’esperienza fatta in Asia, il giovane gallese è forse il miglior coreografo di scene da combattimento che abbiamo in Occidente e in Gangs of London, dove è anche regista degli episodi 1 e 5 e della maggior parte dei momenti d’azione, ce lo dimostra nei corpo a corpo come nelle sparatorie: i nove episodi della serie ci immergono tra ettolitri di sangue, una rissa da antologia in un pub, duelli a colpi d’ascia, teste che esplodono, arti mozzati, mutilazioni varie, torture con pinze o trapani e tutta una serie di particolari raccapriccianti. Insomma, eccessi e crudeltà possono risultare indigesti a molti spettatori e la rendono una serie certamente non per tutti; al contempo, è un dato di fatto che Evans, con uno stile da autore puro raffinatissimo sul piano tecnico quanto tracimante di belluino realismo, stia facendo la storia del genere gangster su piccolo schermo: tanta efferatezza, per quanto estrema, non risulta mai gratuita ma è sempre funzionale a una rappresentazione spietata dell’underground criminoso. L’estrema cura di questo aspetto si evidenzia in particolare nel quinto episodio, piccolo capolavoro di tensione con uno scontro armato di lunghezza spropositata che è un’autentica lezione di regia.
Questa cura tecnica e l’estremizzazione visiva che ci cala in un universo spietato e di profonda amoralità non inficia un profondo e intrigante disegno dei personaggi, numerosi eppure tutti a loro modo indimenticabili e accompagnati da interpretazioni magistrali. I due cardini di questo complesso ingranaggio sono senza dubbio Sean, il giovane neo-boss tormentato, nervoso e tragico, e il suo contraltare Elliott, agente infiltrato con un passato doloroso, mente sagace e corpo martoriato dalle numerose sequenze action che lo vedono protagonista. Due antieroi da antologia, insomma, ma è l’intero contorno a convincere, tra killer psicopatici o di insensata ferocia, coppie di assassini prezzolati e comprimari dalle inattese sfaccettature (su tutti la curda Lale di Narges Rashidi e l’albanese Luan di Orli Shuka), con la madre-virago Marian Wallace di Michelle Fairley che si trasforma inesorabilmente nel personaggio più inquietante e senza dimenticare la presenza chiave dei Dumani, famiglia contraltare dei Wallace di cui rappresentano l’evoluzione verso la modernità (azzeccatissimo, in questo senso, il fatto che siano di stirpe africana). Se i personaggi femminili sono spesso la chiave di volta della narrazione, è chiaro che il motore dell’azione è la famiglia e in particolare il rapporto padre-figlio raccontato nelle tante coppie presenti (Finn/Sean, Ed/Alexander,Charlie/Elliott, Asif/Nasir, Kinney/Darren), e che il più delle volte si rivela essere un’eredità generazionale ingombrante quanto ineluttabile.
Infine, è da sottolineare il fascino di una Londra multietnica e tentacolare, lontana da ogni rappresentazione convenzionale, dove le classiche location turistiche lasciano spazio a vicoli bui e angoli nascosti che sembrano le viscere di un inferno terreno ma anche a interni di lusso e agli slanciati grattacieli dello skyline, simbolo di un potere verticale che tende al cielo e alla conquista assoluta ma affonda le sue radici nel sangue. La seconda stagione, già confermata, dovrebbe arrivare nel 2022.
Voto: 3,5/4