Holy Spider di Ali Abbasi, la recensione

Holy Spider di Ali Abbasi: recensione - Indie-eye – Cinema

“Donna, vita, libertà!”il grido dei manifestanti contro il regime iraniano

Il cinema iraniano negli ultimi anni ha sfornato film eccellenti e potenti come Un eroe di Asghar Farhadi e Gli orsi non esistono di Jafar Panahi, film in chiara opposizione con il governo della Repubblica islamica di Khamenei, film che raccontano la realtà iraniana in un maniera molto cruda e che ci ricordano, per il piglio e l’onestà della trasposizione, in chiave moderna, i film di denuncia italiani degli anni ’60 e ‘70. Il film di Ali Abbasi si spinge ancora oltre come crudezza, toccando il tema, poco trattato e che sicuramente il regime iraniano non vorrebbe far emergere, della prostituzione e della marginalità sociale. Parlando di una società dove bisogna allinearsi a una morale comune, dove non c’è spazio per la devianza sociale e dove se si sbaglia non si viene riaccolti dalla società.

Il film è ambientato nella città sacra di Mashad, patria natia di un martire religioso: un serial killer soprannominato il “Ragno” uccide le prostitute, cercando di ripulire la città nel nome dell’Islam. Rahimi, giornalista di Teheran, arriva a Mashad non solo per raccontarne la storia, ma vuole che venga catturato e che giustizia sia fatta.

Ali Abbasi, dopo due film europei, torna nella sua patria natia per parlarci dell’Iran di oggi e anche se, a detta del regista, il film non è contro il governo iraniano, ha la volontà di dare dignità alle donne iraniane e raccontarle in maniera diversa: la metafora di un uomo che uccide le donne che escono dalle regole fisse che vengono imposte dalla società suona chiara forte come se il nostro assassino “Ragno” fosse il regime e la polizia della morale che uccide chi si ribella alle regole. È infatti impressionante come il film, che ha avuto una lunga genesi, arrivi proprio nel pieno della rivoluzione delle donne in Iran.

Il film mette subito al corrente lo spettatore su chi è il serial killer Saeed, togliendo la suspense ma preferendo presentarcelo come un devoto padre di famiglia, in un ritratto che ci fa risuonare nella testa La banalità del male di Hannah Arendt. Il personaggio ci ricorda Travis Bickle di Taxi Driver, che appunto voleva ripulire la città di New York dalla feccia. Come quest’ultimo, vediamo Saeed muoversi per la città in cerca delle sue vittime. Il muoversi in motocicletta permette al regista di regalarci delle inquadrature dinamiche, in un film dove le ambientazioni sono notturne e si tende a stringere su primi piani a discapito dell’azione. Infatti il film migliora nella seconda parte quando ci viene mostrata che cos’è la società iraniana e come si comporta nei confronti dell’assassino, piuttosto che quando tratta la storia criminale e la caccia al assassino.

Le ambientazioni notturne, la paranoia, le scene senza filtri di sesso e uso di droga, la metodologia rituale con cui uccide Saeed e perfino la locandina del film ci portano in atmosfere cronenberghiane, senza però riprendere le tematiche care a Cronenberg. A contrapporre il nostro cattivo, l’indomita Rahimi, che non solo si assegna il compito di catturarlo, ma deve fronteggiare tutta una parte della società che è contro di lei e contro le donne come lei. Rahimi, che mal accetta di indossare veli religiosi, gli sguardi poco opportuni di certi uomini (molto forte e ben riuscita la scena in camera d’albergo con il poliziotto), i commenti sulla sua vita personale, è la degna eroina e figlia di questa rivoluzione fatta di donne che non si vogliono più sottomettere a regole dettate dagli uomini.

Tuttavia il film pecca di ingenuità proprio nella rappresentazione della sua protagonista, mentre esce molto meglio e più sfaccettato il protagonista maschile; inoltre la cattura di Saeed e la risoluzione della storia sono incredibilmente inverosimili e consolatorie. Mentre invece la scena finale del film è la migliore e ci riporta alla cruda verità, la stessa che teorizzava la Arendt nel suo libro: “Le azioni erano mostruose, ma chi le fece era pressoché normale, né demoniaco, né mostruoso”; il male può invadere il mondo come un fungo.

Con la speranza che si continui a parlare dell’Iran, anche grazie agli ottimi e coraggiosi film che questi registi fanno, in linea con il film c’è un’altra grande opera letteraria che è Leggere Lolita a Teheran (2003!) che parla di quello che succede alle donne in Iran e nel film: ”Adesso che non potevo più pensare a me come un’insegnante, una scrittrice, che non potevo più indossare quello che volevo, né camminare per strada al mio passo, gridare se mi andava di farlo o dare una pacca ad un collega maschio, adesso che tutto ciò era diventato illegale, mi sentivo evanescente, artificiale, un personaggio immaginario scaturito dalla matita di un disegnatore che una gomma qualsiasi sarebbe bastata a cancellare”.

Voto: 3/4

Giulia Pugliese