Hors-saison di Stéphane Brizé, la recensione

“Mi spaventa il futuro perché non so pensare che cosa ne sarà di me” Un altro mondo (2022)
Carrellate su file di case anonime, scogliere grigie, alberghi con arredamenti kitsch e mare che si staglia verso l’orizzonte. Il nuovo film di Stéphane Brizé è fatto di elementi semplici e comuni, quasi noiosi, ma in cui tutti ci riconosciamo. Uno strato di malinconia come se fosse polvere avvolge tutto il film. Un uomo che non ha la forza di reinventarsi e una donna che non sa ammettere con se stessa che poteva avere di più. Mathieu, attore famoso, si nasconde dopo un insuccesso lavorativo, durante la bassa stagione, in un resort in una piccola città della Francia, dove il tempo sembra fermo e le giornate sembrano tutte uguali. Nel culmine della sua frustrazione, noia e smarrimento per il futuro, ritrova la sua vecchia fiamma Alice che abita lì.
Una trama già vista, quasi un cliché per la filmografia francese. Due vecchie fiamme che si ritrovano, prendendo tinte di passione e morte come La signora della porta accanto di Francois Truffaut, tinte misteriose e metaforiche come L’anno scorso a Marienband di Alain Resnais o un turbine di sentimenti come Lola-donna di vita di Jacques Démy.
Brizé presenta una rivisitazione moderna di una storia trattata da molti autori importanti della filmografia francese, portandola in scena in chiave moderna e minimalista, con semplicità e toni scarni, dimostrando che il cinema più efficace è quello delle emozioni. Viene preso qualcosa di già visto, lo si scardina e viene tolto tutto il superfluo.
Brizé si conferma un grande autore capace di spaziare tra i generi. Dopo l’incredibile trilogia sul lavoro (La legge del mercato, In guerra, Un altro mondo) con Hors-saison (in concorso alla Mostra di Venezia 80) decide di puntare su un film completamente diverso per toni, ma non per tematiche, in quanto i film del regista mettono sempre al centro l’uomo, le relazioni e la purezza di queste. Non importa se si parla di colleghi che combattono per non far chiudere la fabbrica, un dirigente che dà la priorità alla sua famiglia o due ex amanti che imparano a conoscersi nuovamente.
Le inventive di stile di Brizé dimostrano una certa arguzia e creano uno stile autoriale: l’uso della musica, dei selfie, i momenti comici, il farci sentire o non sentire delle cose, danno a un film che può sembrare piccolo e asciutto unicità e preziosità.
L’immagine asciutta, dialoghi realistici e brillanti e due personaggi ben delineati, rendono il film un vero capolavoro, in cui chiunque per un aspetto o per un altro si può riconoscere. E questa estrema sincerità è l’aspetto migliore del film e del cinema di Brizé, l’unicità e la voglia di sperimentare linguaggi diversi, siano generi diversi, ritmi o toni diversi all’interno dello stesso film. Il regista, da anni ingabbiato nell’etichetta del Kean Loach francese, fa qualcosa di completamente diverso senza snaturarsi.
Nella vita e nell’arte la cosa più difficile è rimanere autentici. A differenza del suo protagonista, Stéphane Brizé è riuscito a buttarsi e fare qualcosa di nuovo, anche grazie a due interpreti molto convincenti e molto adatti nei loro ruoli: Guillame Canet, che dimostra di essere di più del compagno di Marion Cotillard, e Alba Rohrwacher che è perfetta nella parte di una donna insicura. Con la sua fisionomia gracile, con i suoi tratti delicati riesce a dare dignità a un personaggio che è vittima di se stesso, ma che allo stesso tempo tenta di crearsi una felicità tutti i giorni.
Il film è soprattutto fatto dai dialoghi dei due personaggi, nella creazione di un intimismo. Due persone imparano a conoscersi dopo anni, ma omettono le piccole verità meschine della vita. I due protagonisti sono rinchiusi in una sorta di gabbia auto creata per troppa paura, di contro viene messo in scena un terzo personaggio, che anche se ha una piccola parte del film, ha ricominciato, è se stesso, così facendo è riuscito ad essere felice. Brizè decanta proprio questa forza di essere se stessi, di buttarsi e uscire dalla gabbia della certezza, anche in una lotta contro se stessi. Attraversa questo personaggio, mentre i suoi due protagonisti sono costretti nelle loro vite. Questa contrapposizione è sottile, ma riesce in qualche maniera a smuovere i personaggi.
Proprio per questa onestà che caratterizza il film, il finale risulta calzante ed è impossibile pensarne un altro. Come una vecchia canzonetta, una “chansonette” come dice uno dei protagonisti nel film, il film ti rimane dentro per giorni, ti ritrovi a cercare nuovi significati e possibilità dimostrando che semplice non è banale, autoriale non è noioso, sentimentale non è drammatico e si può trovare spessore anche nella cose più comuni, perché poi i sentimenti, se trasposti onestamente, non sono mai banali.
Voto: 3/4