IL MOSTRO DI ST. PAULI di Fatih Akin – La recensione
Che Fatih Akin fosse un regista ampiamente sopravvalutato lo avevamo ormai capito da tempo. Certo però che negli ultimi lavori sembra quasi voler mettere in mostra tutta la sua meschinità e immoralità nei confronti dei personaggi e delle storie che racconta. Il mostro di St. Pauli, nelle sale italiane dopo il passaggio in concorso all’edizione 2019 della Berlinale, non è da meno.
Seguendo la cronaca di uno dei più recenti serial killer tedeschi, Fritz Honka (Jonas Dassler), il film gioca a sfidare lo sguardo del pubblico insistendo su sequenze macabre, volutamente grottesche e inutilmente pulp per creare ribrezzo e orrore. Quello che dispiace è notare come il regista non si sia messo a disposizione del racconto ma abbia anteposto il suo sguardo cinematografico alla narrazione. Di spunti validi, infatti, la storia ne propone diversi, a cominciare dal becero bar in grado di dare rifugio alle schegge matte di una società sempre più elitaria e cinica, sino ad arrivare alla vocazione irrazionale del protagonista nei confronti del sesso e della violenza.
Il tutto però viene somministrato con un gusto perverso e ricattatorio verso il quale è praticamente impossibile non provare ribrezzo. Akin crede di divertire il pubblico insistendo sui dettami che il genere ha fatto propri durante gli anni, ma si dimentica che spesso e volentieri gli spettatori sono meno sprovveduti di quel che si pensa, tanto da notare e sogghignare nel vedere un teschio prendere forma nel fumo di un incendio dopo un lungo, inutile, viaggio all’inferno.
Voto: 1/4