Il supplente di Diego Lerman, la recensione

 

In questa estate di “Cinema Revolution” in cui si punta ai far uscire titoli anche nei mesi più caldi sarebbe un bel segnale da parte del pubblico non solo andare a vedere Barbie, ma anche un bel film di cui si sta parlando molto poco come Il supplente, che è buona cosa vedere approdato in Italia dopo il passaggio al Festival del cinema africano, d’Asia e America Latina.

Ambientato nella periferia estrema di Buenos Aires, in un’Argentina suburbana ancora alle prese con gang e narcotraffico, il film di Diego Lerman racconta la storia di Lucio, uno scrittore e intellettuale che, vedendosi sfuggire ancora una volta la cattedra universitaria, accetta di lavorare come supplente in un istituto superiore di un quartiere disagiato, dove il padre, detto il Cileno, è un uomo noto per aver fondato la mensa dei poveri e aiutato la popolazione. Alle prese con un gruppo di studenti cui è assai arduo inculcare l’amore per la cultura e la letteratura, Lucio si troverà presto a che fare con problemi ben più gravi e dovrà aiutare alcuni ragazzi per uno scandalo di droga che scoppia all’interno della scuola, sfidando il potere del gangster locale.

Dopo una prima parte che sembra rifarsi al ricco filone di film scolastici da L’attimo fuggente a La classeIl supplente si cala nella cronaca neorealistica di uno spaccato del Sudamerica più marginale e riesce brillantemente ad accostare la denuncia sociale al percorso di consapevolezza dell’idealista Lucio, che passa non solo attraverso il suo ruolo di insegnante ma anche a quello di padre, di figlio e di uomo.

La pellicola dimostra un’ottima tenuta e tira fuori il cuore senza mai sfiorare la retorica, con un bravo Juan Minujín nei panni del protagonista. Graditissima, come sempre, la presenza di Alfredo Castro, l’attore feticcio di Pablo Larraín qui nei panni del Cileno, personaggio più defilato ma di importanza chiave che lo conferma come uno dei più grandi interpreti sudamericani di questi anni.

Voto: 2,5/4