La chiamata dal cielo, la recensione dell’ultimo film di Kim Ki-duk
“Per questo faccio film: tentare di comprendere l’incomprensibile.” Kim Ki-duk
Si può lottare contro il proprio destino? La nostra natura può cambiare? Avendo tutte le informazioni riusciremmo a prendere decisioni diverse? L’ultimo film di Kim Ki-duk parla ancora una volta della natura umana e ci mette alla prova facendoci vedere un rapporto di coppia estremo e pericoloso, di cui i due protagonisti non sanno fare a meno, anche se avrebbero la possibilità di compiere scelte diverse.
Il film si focalizza sui sogni rivelatori della donna, scegliendo per questi un bianco e nero elegante, ma che allo stesso tempo mette in risalto le luci e le ombre. Mentre il reale è a colori, ma in qualche maniera è ancora più inquietante. Il sogno come rivelazione: mostra le paure della ragazza e un plausibile futuro, riprendendo in parte la tematica del rapporto tra realtà e sogno che c’era in Dream (2008), anche in questo film i destini si intrecciano sia nel sogno che nella realtà.
Una giovane donna, di cui non sappiamo niente, neanche il suo nome, si innamora di uno scrittore. Nonostante la ragazza inizialmente sembri assennata e razionale, si farà poi travolgere da questo amore passionale e totalizzante che porterà ad estreme conseguenze. L’amore ci eleva o ci abbassa? I due protagonisti più che vivere una storia d’amore, vivono una battaglia, di cui però non possono fare a meno in un mondo dove spazio-tempo, passato-futuro e sogno-realtà si mescolano. Il film si esprime in questa sua sospensione: la ragazza compra il libro dello scrittore, che però sembra raccontare la loro storia, ritornano delle donne dal passato dello scrittore che però sembrano ancora gravitare nella sua vita, il vicino le dice che non è la prima fidanzata che vede, i nostri due protagonisti vivono in un flusso, dove il tempo si espande, ma la protagonista ci dice che è passata solo una settimana. La nostra coppia è fatta di due personaggi o due archetipi di uomo e donna come Adamo ed Eva? La genesi dell’amore nasce dalla sofferenza e dalla crudeltà?
Il film ci fa vedere una quotidianità fatta di spazi chiusi, ossessioni, sesso dove l’affettività non esiste, ma c’è solo possessività e senso di colpa per un evento che peserà sul cuore per citare un altro film del regista, dove i ruoli di vittima e carnefice si alternano. La gelosia permea il rapporto e rende cieca la coppia, per lo spettatore il loro rapporto diventa un gioco al massacro, difficile da guardare, dove si spera sempre che la ragazza si svegli e se ne vada, prima dell’inevitabile. Tuttavia il film è incentrato su un destino, a cui non possiamo ribellarci, ma solo accettarlo come il monaco di Primavera, estate, inverno…ancora primavera (2003).
I due protagonisti vivono in un eterno ritorno di giornate uguali, dove anche i piccoli gesti – lavare la verdura, sbucciare la frutta – sembrano piccoli ricatti e meschinità, una forma di competizione che permea il rapporto. Il regista mette in scena l’impossibilità della società moderna di lasciare la libertà, la macchinazione dei rapporti, l’impossibilità della comprensione dell’altro e lo schiacciamento in un rapporto di coppia, la mancanza di un educazione sentimentale che si manifesta attraverso l’aggressività. Come era successo con Bad Guy (2001), l’amore passa per il possesso, la violenza, l’ossessione e anche in questo film lui e lei sono destinati ad incontrarsi, come segnati da un fato precedente in un parco proprio come nel film del 2001.
Kim Ki-duk ci racconta come l’amore possa essere meschino e come gli uomini possano soffocare le donne, anche attraverso le coppie che i protagonisti incontrano al parco, sia in un ottica culturale, la cultura asiatica è permeata dall’idea della donna geisha, ma anche in un ottica di universalità dove le donne sono spesso vittime degli uomini, mettono da parte le loro scelte. Il regista si chiede se le persone si possono realizzare nei rapporti di coppia; tuttavia la nostra protagonista è in parte complice del suo carnefice, sua vera e propria compagna, è una moderna Eva decide con le sue azioni del loro rapporto e del loro futuro. Il regista mette in scena una ragazza apparentemente fragile ed eterea che in realtà è padrona del suo destino.
Per uscire da questa carneficina l’unica fuga è la chiamata dal cielo, proprio come il personaggio di Primavera, estate, inverno e….ancora primavera. Alla fine i due protagonisti si troveranno in una sorta di Eden, liberati dalle loro pulsioni, dove saranno liberi, ma comunque sempre assieme. La vera libertà è accettare la propria identità e l’amore.
Il regista, che in passato è stato predicatore, ci parla dell’avvicinamento a Dio e dell’animo umano. Kim Ki-duk ci lascia e lascia un vuoto che non potrà essere colmato con questo film postumo, ma tuttavia ci conforta in quanto pieno dei suoi stilemi e ci spaventa con la lucidità della sua messa in scena. Il film ha un messaggio chiaro, si porta dietro l’eleganza del regista, tuttavia risulta in parte incompleto e minore. Purtroppo non esaurisce la nostra sete.
Voto: 2,5/4
Giulia Pugliese