Blonde di Andrew Dominik, la recensione del film con Ana de Armas

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A cura di Francesco Pozzo

Blonde, quarto lungometraggio lungamente covato di Andrew Dominik – che già mostrò tutto il suo ribollente e sconfinato talento con quella pellicola mitica e sfolgorante che è L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (ma non solo: riguardatevi Chopper), e che alcuni ridussero, e continuano stoltamente a ridurre, a sterile e compiaciuto manierismo autoriale d’alta classe – trionfa nell’apparentemente impossibile impresa che mai nessuno è riuscito a compiere: restituirci l’abissale, opaca e distruttiva complessità di Norma Jeane Mortenson. Tradotto: Marilyn Monroe.

La visione d’insieme, le atmosfere sospese e pulviscolari, le scelte stilistiche, le stratificazioni e il linguaggio proteiforme di questo film monumentale e sconvolgente sono sì morbosamente perturbanti, tetre, angosciose, finanche nauseanti, e molto: ma era proprio questo, chiaramente, l’intento del regista e di Joyce Carol Oates, dal cui romanzo Dominik prende le mosse: quello di calarci senza infingimenti e indoramenti di pillola nella solitudine intrinseca e negli anfratti più reconditi della fragile, labilissima psiche di una donna-icona che ha incontrato (molto) spesso il male di vivere e che ognuno di noi ha contribuito, volente o nolente, ad assimilare e distruggere.

Un’operazione messa in atto nella maniera più ardita, composita e radicale possibile, e che consente all’australiano di dar vita ad una polifonia mortuaria e raggelante, a una passerella di fantasmi, di defunti che riprendono le loro fattezze: di simulacri scomparsi che una volta evocati riottengono una vitrea e inquietante concretezza, come spettri che rivivono sostanziando la natura abbacinante, fantasmatica e illusoria del cinema: un Giro di vite bagnato dal sole nero di Los Angeles, un incubo dai contorni traslucidi, un’ordalia horror senza vie d’uscita, una prigione soffocante senz’alcuna possibilità di salvezza: tour de force visivo, acustico e intrauterino al quale si assiste come in uno stato di trance, di sconvolgimento interiore per ciò che si sta guardando, imprigionati ma al contempo sedotti.

Dominik ci ingabbia brutalmente e scientemente nell’anima tormentata di Marilyn, portandoci a ripercorrere gibsonianamente tutte le tappe del calvario che questa donna subì nel corpo, nella mente e nello spirito mentre l’universo che le gravitava attorno (cioè noi) si compiaceva concentrandosi lascivamente sulla sua apparenza più decifrabile e luminosa, sulle sue forme, sulla sua perlacea e lucente bellezza: su quella finta ocaggine che cavalcava lei stessa per fragilità nel goffo e disperato tentativo di nascondere insanabili complessi come il terrore della malattia mentale ereditata dal ramo materno, l’atavico timore di non essere una figlia voluta, il disagio di non sentirsi autenticamente compresa mentre il mondo procedeva senza accorgersi di nulla, troppo concentrato a plasmare la granitica e scintillante iconografia dell’immaginario pop collettivo che tutti conosciamo e abbiamo warholianamente contribuito a codificare e diffondere (mentre tutto, a onor del vero, era ben più che visibile anche all’occhio meno sensibile: riguardate anche solo qualche estratto de Gli spostati o de Gli uomini preferiscono le bionde, e provate a raccontarvi che lì, in quei film, non si leggeva chiaramente la disperazione implorante aiuto stampata sul diafano e cagionevole viso).

Dalla madre violenta e psichicamente disturbata alla figura di un padre assente e ossessivamente cercato in ogni uomo che incontra per l’intero arco della sua breve e tragica vita (nocciolo e snodo cruciale del racconto che la conduce inevitabilmente all’espoliazione perpetrata da chiunque la possegga: al suo essere svilita, sessualizzata e puntualmente ridotta a carne da macello, algido oggetto di puro e animalesco godimento senza che nessuno di coloro che le graviti attorno provi anche solo lontanamente ad andare oltre: a scalfire la superficie accettandola per la creatura delicata, complessa e multiforme che è); dal mero godimento dell’ambiguo triangolo sessuale di figli indesiderati composto da lei, Cass Chaplin ed Edward G. Robinson Jr. (con numerosi momenti di genialità vera ed elettrizzante come le teste distorte dei due adescatori che si uniscono formando un’idra, la dissolvenza letto/cascate del Niagara o le stelle del cosmo che si tramutano in spermatozoi) alla silenziosa ma reiterata riconduzione a sé stesso meticolosamente operata da Arthur Miller; dalla bestialità possessiva, brutale e radicata del maschilismo di Joe DiMaggio (guardate semplicemente come le afferra il collo durante la proposta di matrimonio) fino alle menzogne e ai ricatti, ai maltrattamenti e agli aborti imposti: tutto, ci mostra spietatamente Dominik, concorse a fare di Marilyn un lacrimevole fantasma, a non esistere realmente: a non essere mai compresa, nemmeno per un fugace istante, per la sua reale ed evanescente essenza, per la sua segreta bellezza: rimanendo intrappolata per sempre nei meandri d’una personalità scissa e provata dagli eventi di un’esistenza crudele e segnata in partenza (Ana de Armas ha un impercettibile rilievo sulla gota sinistra che crea la straordinaria illusione ottica di una lacrima perenne).

Soprattutto, un film sullo sguardo: sguardo di Norma sugli eventi, vissuti e sofferti dalla sua prospettiva (ecco perché molte scelte e trovate all’apparenza kitsch o comunque molto arrischiate come la sequenza in cui la nostra scorge il segnale dello Stop decidendo improvvisamente di non abortire non vanno guardate come facilonerie o azzardi di grana grossa, ma come esempi della magistrale capacità registica di restituirci il caos di una mente ondivaga, confusa, infantile, straziata, deformata, non di rado troppo ingenua, in balia degli eventi e quasi mai in controllo di sé stessa, sublimata attraverso una messa in scena di raro, ovattato e scioccante nitore: “Non c’è tecnica: sembra solo di vedere una malata di mente”, sentenzia cinicamente un esaminatore durante i provini de La tua bocca brucia in una delle scene più strazianti del film); sguardo nostro, di spettatori inerti ma colpevoli, che guardiamo da un’angolazione inedita le vicende che hanno coinvolto Marilyn osservando raggelati le sue private traversie e, di pari passo, le stampe, le foto, i calendari, i poster e i ruoli iconici che l’hanno vista protagonista, con un fluidissimo inserimento digitale del volto della de Armas sulla fisionomia della Monroe che crea l’anomalia, l’intermittenza, la perturbazione che ci spinge inconsciamente a rimettere in discussione tutto e che sgomenta sparigliando le carte, invitandoci a ridimensionare le nostre convinzioni e il nostro modo di guardare le cose e fruire il cinema andando oltre la parvenza più immediata delle superfici; sguardo di chi sfrutta Norma/Marilyn per il proprio piacere manipolandola sottilmente, come Chaplin Jr. che guarda allo specchio – insieme a noi, di riflesso – il suo torso nudo e porcellanato, indifeso, disvelandolo per la prima volta; sguardo inesorabile sulla Storia, con la precisa, puntuale destrutturazione di molte vacche sacre della mitologia statunitense che conferma l’ambizione e il coraggio di una di quelle opere scomode e fuori dagli schemi che si sarebbero potute ammirare in sala, in tutta la loro potenza incendiaria, visionaria e dirompente, negli anni della Nuova Hollywood, e che sono oggi possibili, pare, soltanto grazie alla libertà concessa da Netflix agli artisti.

E poi, naturalmente, sguardo sublime sul cinema: deformazione, stravolgimento, cambiamento di ritmi, di formati, di obiettivi, di toni, di colori, di sintassi filmica: uso smodato di filtri ed artifici a iosa, alternanza sapientissima e senza soluzione di continuità fra colore e bianco e nero, sfumature, distorsioni, rifrazioni e manipolazioni d’ogni sorta eppure mai con un punto di vista superficiale, estetizzante o compiaciuto (à la Baz Luhrmann, per intenderci), bensì come acuta investigazione del mezzo e dei suoi sviluppi, della sua forma cangiante e delle sue molteplici e infinite risorse (stupefacenti e disturbanti le riproposizioni millimetriche di svariati scatti e momenti notissimi della vita, pubblica e non, della star): della sua connaturata capacità di plasmare immaginari e di aprire, chiudere o intrappolare corpi, delle possibilità che continua a offrirci influenzando le nostre vite, della sua storia e del suo futuro: risciacquatura di un mondo perduto fatto d’immagini cristallizzate nel tempo, di morte al lavoro, di figure che sono ormai parte di noi e che informano le persone che siamo, il nostro inconscio, le nostre movenze e psicologie mediante la pervasività dei media di massa e la plasticità di corpi che nascondono storie fosche, agghiaccianti e arduamente catalogabili come quella di Norma Jeane.

E per concludere (o meglio, per iniziare, a cerchio: perché senza di lei non esisterebbe il capolavoro assoluto, testamentario, ultimativo e sconvolgente che è questo Blonde, e perché lei, semplicemente, è tutto), Ana de Armas, la quale offre, senza giri di parole, una delle prove più grandiose e folgoranti a memoria di spettatore: un qualcosa ai livelli di De Niro in Toro scatenato o di un Fassbender in Hunger: il loro corrispettivo femminile e non meno sanguinante, capace d’innescare un meccanismo inquietante poiché osservarla è come scrutare un fantasma, un’ombra che riacquista corporeità e consistenza, un morto che ritorna in vita dinnanzi ai nostri occhi ma con quella difformità, quello scarto, quel disturbo che è appunto il viso di Ana de Armas impiantato sulla fisicità di Marilyn Monroe: intuizioni che riportano alla mente la Madeleine Elster reincarnata in Judy Barton de La donna che visse due volte o, se pensiamo alla pittura, il Ritratto di Papa Innocenzo X di Velázquez trasfigurato da Francis Bacon: a prima vista stiamo vedendo una determinata cosa, e potremmo non capire, ma dentro di noi sappiamo, e sentiamo, cosa c’è sotto.

E sotto c’è, appunto, Marilyn Monroe: non Ana de Armas: e questa è una cosa che va molto oltre la recitazione: è la prova vivente del genio e della sensibilità fuori dal comune di una persona che ha compreso così a fondo e carpito così dostoevskianamente l’anima e la verità intima di un altro essere umano da riuscire ad entrare in un corpo che non esiste più ma che è come se, tramite il sentire profondo di un performer, vivesse nuovamente; ed è per questo che d’ora in avanti, ogniqualvolta vedremo un film con la Monroe, non potremo non vedere, davanti a lei, Ana de Armas (di per sé un’attrice più dotata rispetto alla già notevole Marilyn, primariamente perché la bravura di quest’ultima risiedeva proprio nella sua adorabile selvatichezza: in quella mancanza di distacco che traspare in ogni suo lavoro e che finì, come sviscerato con dovizia entomologica e senza colpo ferire in questo film enorme inadatto alle anime candide, per piegarla, fagocitarla, annullarla).

Inviterei dunque tutti coloro che ritengono la prova di Kristen Stewart in Spencer notevole o quella di Austin Butler in Elvis il non plus ultra della recitazione (un discreto attore imbrigliato in un brutto film che è l’esatto opposto di questo: assolutamente nulla di più) a guardare attentamente questa performance e a rifletterci per un momento, lasciandosi attraversare e vincere da quest’opera concettuale e liberissima, feroce e vellutata, vulcanica e sussurrata, claustrofobica e pervasa da una luce scintillante capace di trascendere il mito librandosi fino alle stelle, così belle e luminose, eppure così sole.

Voto: 4/4