LA SCELTA DI BARBARA di Christian Petzold (2012)
Se c’è qualcosa che non si può negare alla cultura tedesca, e al cinema in particolare, è il coraggio di voltarsi indietro e fare i conti con passato controverso come pochi.
Non solo i cupi tempi del nazismo, ma anche quel lungo cinquantennio, che ha visto la nazione oggi più ricca d’Europa drammaticamente divisa da una linea di confine, è un argomento al centro di diversi titoli della recente cinematografia teutonica: abbiamo tutti realizzato quanto fosse atroce e soffocante la vita nella DDR grazie alle immagini del pluripremiato Le vite degli altri (ma non trascuriamo il più leggero e pur profondo Goodbye Lenin).
Di questa difficile pagina storica ci parla anche Christian Petzold, uno dei più importanti esponenti del nuovo cinema tedesco, in La scelta di Barbara, insignito del Leone d’argento per la miglior regia al Festival di Berlino 2012.
Il film è incentrato sulla figura di una donna, medico pediatra nella Repubblica Democratica Tedesca, che nell’estate 1980 finisce “esiliata” in un piccolo ospedale di provincia, rea di aver richiesto un trasferimento all’Ovest. Tenuta sotto perenne controllo dalla Stasi, pianifica la fuga per raggiungere il fidanzato che vive oltrecortina, ma dovrà fare i conti con il suo senso di responsabilità professionale e con l’amicizia instaurata con il collega André.
Ci troviamo di fronte a un’opera decisamente più sobria e asciutta della già citata pellicola di Florian Henckel Von Donnersmarck, con la quale il paragone è d’obbligo. Alla cupezza di quegli interni austeri e di quei grigi paesaggi urbani, Petzold contrappone un’ambientazione più bucolica, eppure tutt’altro che rassicurante: anche nel piccolo e ventoso paesino dove Barbara finisce relegata si respira un’atmosfera densa di sospetto, avara di calore umano e resa ancora più tetra dall’esistenza di un vicino campo di lavoro che rinchiude e distrugge molte giovani vite.
Al centro del film, un eccezionale ritratto femminile magistralmente incarnato da Nina Hoss, musa del regista: quello di una donna indipendente, silenziosa e solitaria, consacrata al perseguimento della propria libertà personale a dispetto del pesante prezzo da pagare (le invasive e umilianti persecuzioni dei poliziotti), refrattaria ai rapporti umani e intransigente rispetto alle morbidezze dell’affettuoso André. Una donna che, tuttavia, non riesce del tutto a nascondere la sua vera natura: già da quei piccoli tocchi di vanità femminile (gli occhi sempre perfettamente truccati che contrastano con l’abbigliamento austero) capiamo quanto Barbara, sotto la scorza dura di chi vive in perenne stato d’allerta, sia in realtà percorsa da forti slanci passionali. E, infine, capace di cedere a sentimenti materni, alla compassione, per ritrovare il sorriso a lungo negato, dopo aver compiuto la scelta più difficile della sua vita.
Tuttavia, al di là del bel personaggio e di una ricostruzione d’ambiente di puntigliosa perfezione, cosa resta? Un più che discreto film, che però, alla visione, risulta poco coinvolgente ed emotivamente freddo. Peccato: molti spettatori non apprezzeranno e a qualcuno scapperà qualche sbadiglio. Ma, va detto, una lezione di storia ogni tanto non ha mai fatto male a nessuno.
Voto: 2,5/4