Mon Crime – La colpevole sono io di François Ozon, la recensione
Donne che uccidono gli uomini: è ciò che sta al fondo (e alla superficie) di Mon Crime, ultimo film di François Ozon e adattamento dell’omonima pièce di George Berr e Louis Verneuil, con il quale il regista francese indaga il Me Too traslandolo negli anni ’30. Madeleine, giovane attrice spiantata che cerca di sbarcare il lunario, si ritrova implicata nell’assassinio di un potente produttore e predatore sessuale. Per uscirne si autoaccuserà dell’omicidio e verrà clamorosamente assolta per legittima difesa, con l’aiuto di Pauline, sua compagna di sventure e giovane avvocatessa. Madeleine inizia così un’inaspettata quanto brillante carriera nel mondo del teatro e del cinema, che però riserverà ulteriori colpi di scena.
Il film mette in scena l’eterno conflitto maschi-femmine dal punto di vista di queste ultime, con una rappresentazione della cosiddetta “sorellanza”, quella complicità che, al contrario dell’astratta e vuota fratellanza tra gli uomini, è fatta di conversazioni gioiose e sottilmente intelligenti, che rendono le donne vicine anche nelle situazioni di rivalità. In Mon Crime le donne sono portatrici di una morale anticonvenzionale, poiché una società ingiusta come quella maschilista richiama necessariamente la protesta e rende il delitto cosa lecita: Madeleine sfoggia il “Mon” del suo crimine con fierezza, Antigone di primo Novecento. Al contrario, gli uomini appaiono come macchiette (ne è un esempio lampante il giudice interpretato da Fabrice Luchini), ridicoli detentori del potere che hanno l’illusione di avere il controllo della situazione, ma che in realtà vengono travolti dagli eventi.
Se gli uomini lavorano per conservare lo status quo e la vuota forma burocratica, le donne rappresentano quella vitalità che spinge contro la forma, sconvolgendola. La vitalità femminile nel film è resa da un ritmo irresistibile che travolge lo spettatore: la ritmicità è la caratteristica principale di Mon Crime, opera profondamente musicale che ha come suoi riferimenti Mozart e Rossini. Ozon dimostra di essere qui un maestro concertatore che dirige con maestria dialoghi che sono in realtà duetti e scene corali che sembrano dei concertati. Gli strumenti-attori solfeggiano recitando botta e risposta fulminanti secondo una precisa intonazione: ogni cosa è a tempo, compresi gli ingressi e le uscite di scena dei personaggi.
In questa coloratissima e gioiosa opera buffa in costume tutto rimanda al teatro: il film inizia con un sipario che si apre su una villa in piscina, mentre l’epilogo avviene proprio su un palcoscenico. Facendo muovere i personaggi in ambienti volutamente finti come studios hollywoodiani, Ozon definisce chiaramente e da subito lo spazio della finzione e del gioco. Questa scelta, assieme all’umorismo nero e surreale à la Bertrand Blier che attraversa tutto il film, gli permette di parlare di un argomento scottante senza correre il rischio di bruciarsi con i pericoli della retorica.
Il meccanismo surreale esorcizza le pulsioni inconsce più profonde rappresentandole con nonchalance, senza tabù: l’uccisione del maschio da parte della donna è infatti un archetipo mitico nell’inconscio femminile (ammesso che l’inconscio abbia genere sessuale). Anche la morte viene esorcizzata, resa oggetto di scambio in un mondo che mercifica tutto: “Scelga uno di questi crimini di cui accusarsi”, dice il giudice Luchini all’attrice decaduta del cinema muto Isabelle Huppert e rea confessa poco credibile.
L’ambientazione negli anni Trenta permette a Ozon di smarcarsi dalla mera cronaca (così sarebbe risultato un film sul Me Too odierno), ma anche di rimanere attuale grazie alle molteplici analogie con la contemporaneità, come l’informazione scellerata dei media, le condizioni dei lavoratori, la crisi economica. Ma ciò che forse ci fa sentire più vicini a questo momento storico è quella particolare condizione di confusione e spaesamento che caratterizza i momenti passaggio da un mondo vecchio ad un altro completamente nuovo e sconosciuto, del quale si ignora se porterà la salvezza o il disastro.
Voto 2,5/4
Giacomo De Rinaldis