NOTTI MAGICHE di Paolo Virzì – La recensione
Dopo la parentesi americana di Ella & John, Paolo Virzì torna a lavorare nei lidi nostrani con un’opera parzialmente autobiografica o, meglio, ispirata ai suoi inizi di giovane cineasta in un’era peculiare della nostra cinematografia, quando le nuove generazioni si confrontavano con gli ultimi rappresentanti del grande cinema italiano che fu. Notti magiche racconta quell’epoca in un mix tra giallo e commedia scanzonata, inserendo come protagonisti tre attori giovanissimi ed esordienti o quasi (Mauro Lamantia, Giovanni Toscano, Irene Vetere) affiancati da un cast di veterani. Nella notte della semifinale Italia – Argentina ai Mondiali di calcio del 1990, un’auto precipita nel Tevere con a bordo il cadavere di Leandro Saponaro (Giancarlo Giannini), noto produttore. Sulle note di Gianna Nannini e Edoardo Bennato, si consuma così la notte più difficile per i tre giovani sceneggiatori Antonino Scordia (Lamantia), Luciano Ambrogi (Toscano) ed Eugenia Malaspina (Vetere), i principali sospettati del delitto. Interrogati da un capitano dei Carabinieri (Paolo Sassanelli), ricostruiranno i loro rapporti con la vittima e la loro avventura nell’ultima stagione gloriosa del nostro cinema.
Frenetico, convulso e irriverente, il film si poggia su una sceneggiatura frizzante scritta a sei mani dallo stesso regista insieme agli abituali collaboratori Francesca Archibugi e Francesco Piccolo. I dialoghi vivaci e ironici e il racconto beffardo della natura umana (in questo caso di un microcosmo, la Roma di una Dolce Vita in “agonia”) sono come sempre la base del cinema di Virzì, che però in questo caso firma la sua opera più imperfetta, sconnessa e squilibrata.
Il regista livornese pigia sul pedale dell’acceleratore per restituire un ritratto d’epoca affettuoso ma a tratti derisorio e sarcastico, un racconto denso cui non mancano momenti notevoli (su tutte, la scena sul set de La voce della luna di Fellini dà i brividi) ma che risulta esasperato, soffocato dalla sua stessa ambizione e dai tanti difetti che emergono per l’intero corso della pellicola. Nel suo omaggio pur generoso e senz’altro sincero, Virzì rompe gli argini, a partire dalla recitazione troppo caricata dei tre giovani protagonisti, intrappolati nei loro cliché: il toscano godereccio e proletario (che resta comunque il personaggio più riuscito), il meridionale accademico e logorroico, la ricca altoborghese tormentata e fragile stereotipata sino all’insopportabile, la cui linea narrativa è decisamente la meno coinvincente del film.
Attorno a loro, c’è un caleidoscopio di macchiette dai nomi inventati che ammiccano a personaggi reali, dove la folle saggezza del grande autore impersonato da Roberto Herlitzka si accompagna alla degenerazione parodistica di un Giannini che ricorda Vittorio Cecchi Gori, al simil Antonioni di Ferruccio Soleri, alla comparsata trash di Ornella Muti e a improbabili attori francesi da film d’auteur, in un mondo di vecchi padri del grande cinema che si avviano sul viale del tramonto sprezzanti dei loro figli che non sapranno raccoglierne l’eredità. Fino a un finale bruttino e un po’ metacinematografico che spegne in malo modo la tensione del giallo e chiude l’avventura dei tre protagonisti in modo dolceamaro. Virzì è lontano dalla freschezza e dalla coerenza di film più riusciti come La prima cosa bella, Tutta la vita davanti, Il capitale umano o La pazza gioia, certamente coraggioso ma forse troppo coinvolto nella materia trattata.
Voto: 2/4