PASSION di Brian De Palma (2012)

 

Presentato nell’ultimo giorno del concorso, Passion rappresenta per Brian De Palma un ritorno alle origini, dopo la bella prova di regia espressa con Redacted, opera dal taglio documentaristico vincitrice del Leone d’Argento per la miglior regia a Venezia nel 2007.

La volontà di riproporre le atmosfere torbide che hanno caratterizzato i suoi primi (e forse migliori) lavori non sembra però concretizzarsi felicemente sullo schermo. L’accostamento ai suoi celebri thriller, (Complesso di colpa, Vestito per uccidere e Omicidio a luci rosse su tutti), è più che altro frutto di uno slancio nostalgico. Tematiche da sempre care a De Palma come “tema del doppio”, “senso di colpa” e “false apparenze” sono inserite in modo posticcio, senza riuscire a fondersi per creare la giusta atmosfera del film.

La storia è quella di un rapporto vittima/carnefice in cui c’è un continuo ribaltamento dei ruoli: Rachel McAdams è una navigata dirigente di una multinazionale, sadica e spietata, che ottiene tutto ciò che vuole. Anche a letto. Noomi Rapace è la giovane assistente che ne subisce il fascino magnetico, tanto da diventare vittima di un piano diabolico. Ma, ovviamente, non tutto è come sembra.

La tensione erotica tra le protagoniste, sbandierata ai quattro venti come veicolo promozionale per il film, è imperdonabilmente priva di quella morbosità che è lecito aspettarsi. De Palma sembra non riuscire a calare la storia nel clima volutamente provocatorio dei suoi lavori migliori, non lasciando traccia del suo proverbiale voyeurismo. Se gli insistiti omaggi al maestro Hitchcock sono sempre risultati funzionali all’intreccio nelle sue pellicole precedenti, qui degenerano in una pratica di onanismo citazionistico sfrenato.

Il buon De Palma si è tenuto a briglia corta senza dare libero sfogo al suo indiscutibile talento, rinunciando anche ai virtuosismi tecnici che l’hanno reso celebre. Peccato.