PIXELS di Chris Columbus (2015)

pixels

Prendendo le mosse da un cortometraggio, Chris Columbus cerca di allungare a poco meno di due ore un’idea decisamente vincente e originale: gli alieni (stranamente) attaccano la terra. Questa volta però lo fanno con le sembianze dei classici e storici videogames anni Ottanta. La salvezza del nostro pianeta sarà dunque nelle mani di simpatici e sprovveduti nerd che per la prima volta nella loro vita saranno guardati con rispetto e ammirazione.

 

Già da questi brevi cenni si può intuire come Pixels viaggi su due binari paralleli. Il primo riguarda l’aspetto più ironico e goliardico dell’operazione, ovvero il richiamo a un’epoca videoludica che viene stimata e compianta ancora oggi da molti giocatori e non sparsi su tutto il globo. Il secondo invece è un impianto prettamente canonico e banale con cui narrare il tutto, la classica parabola dell’eroe che avrà modo di rivendicare tutti i soprusi di una triste infanzia imparando valori e nuovi stimoli per affrontare il resto dei propri giorni.

Ora, la pellicola in questione purtroppo pende totalmente sul secondo elemento, in maniera grave e a tratti intollerante, senza (quasi) mai sfruttare la prima componente. Columbus dirige il film curandosi solo del valore estetico e sottovalutando tutto il resto, a cominciare da un gruppo di attori decisamente svogliati e fuori parte sino ad arrivare ai risvolti di un copione prevedibile e mai sorprendente (basta ascoltare i dialoghi dei primi cinque minuti per capire il livello della sceneggiatura). Ciò che ne risulta è l’occasione sprecata di realizzare un blockbuster originale e fresco. Le idee migliori (lo sgretolamento dei pixels, l’interazione con i videogames, le citazioni abbondanti) sono tutte da annoverare nel corto di partenza. Columbus non fa altro che riprenderle e adattarle al suo lungo, senza inventare o aggiungere nulla.

Ricercando in continuazione l’approvazione di un pubblico di massa felice di poter ricordare in modo leggero la sua infanzia/adolescenza, il cineasta non si accorge che in realtà il suo film tende inesorabilmente verso un risultato spento e ripetitivo, che stufa appena intuito come oltre al gioco citazionistico la sostanza sia davvero vana.

Peccato che il regista dei primi Harry Potter non conosca l’italiano, avrebbe potuto trarre spunto dall’Abiura di me di Caparezza, decisamente più efficace della sua ultima fatica.

Voto: 1,5/4