RIFKIN’S FESTIVAL di Woody Allen, la recensione

Woody Allen e i suoi adorabili cliché

Dopo i rinvii per la pandemia, arriva finalmente nelle sale italiane l’ultimo film di Woody Allen: Rifkin’s Festival è una visione destinata solo a noi spettatori europei, dal momento che negli Usa sul regista pesa ormai un ostracismo definitivo per le accuse di molestie dalla figlia Dylan (per cui peraltro Allen è stato prosciolto decenni fa). Ed è un peccato per il pubblico americano, che si perde questo ennesimo incantevole tassello della sua filmografia, un vero guilty pleasure perfetto soprattutto per i cinefili puri e duri.

Opus numero 49 di un regista che – malgrado le polemiche e le furbette prese di distanza di alcuni dei suoi attori – non riesce a stare lontano dal set, Rifkin’s Festival è girato lontano dall’America, nell’amena cittadina spagnola di San Sebastian con cui Allen ha un rapporto speciale. Il nuovo alter ego del cineasta è il Mort Rifkin di Wallace Shawn, attore che ha già lavorato con Allen ma è stato inspiegabilmente sottoutilizzato da Hollywood se non come caratterista (era Vizzini in La storia fantastica). Ex insegnante di cinema con l’eterno sogno di diventare scrittore, Mort accompagna al celebre festival cinematografico di San Sebastian la moglie Sue, publicist di alcuni registi (Gina Gershon, un’altra che meriterebbe di più, a giudicare da questo film e da Killer Joe). Peccato che la donna dimostri una notevole complicità con il giovane regista Philippe (Louis Garrel, che nel film porta il nome del papà, celebre cineasta francese). Mort finisce così per affezionarsi alla dottoressa spagnola Jo (Elena Anaja, attrice per Almodovar).

Dai titoli di testa con l’inconfondibile font al finale amarognolo, siamo nella quintessenza del cinema alleniano, che dopo o sussulti giovanili di Un giorno di pioggia a New York, torna a un contesto più senile con un antieroe fallito, ipocondriaco  e disilluso, veicolo per una riflessione sul cinema. Ormai costretto a raggranellare fondi in Europa (Spagna e Italia), Allen ironizza sul cinema contemporaneo e persino sul mondo festivaliero, con una rappresentazione sarcastica e iperbolica (nonché divertentissima) dei giovani autori osannati dalla critica. Rifkin snobba del tutto le proiezioni, perché l’amore suo e di Allen è tutto per il cinema del passato e dei grandi Maestri – soprattutto europei – che rivive letteralmente nei sogni e nei pensieri del protagonista.

Orson Welles (unico americano), Federico Fellini, Ingmar Bergman, François Truffaut, Jean-Luc Godard, Luis Buñuel: i loro capolavori si trasformano nelle autoriflessioni di Mort, in un metafilm più colto e cinéphile de La rosa purpurea del Cairo, dove l’omaggio si mescola alla parodia che però non è sberleffo ma atto d’amore. Rifkin’s Festival, più convenzionale (eppure non banale) nella trattazione dei rapporti sentimentali, può essere davvero apprezzato da un pubblico di appassionati di cinema d’autore anziché da uno spettatore comune? Forse, ma quanta delizia. E chissà che l’esilarante Christoph Waltz o la straniante scena in svedese non spingano gli assuefatti ai blockbuster a correre a recuperarsi Bergman.

Voto: 2,5/4