The Fabelmans di Steven Spielberg, la recensione

 

Ci deve essere qualcosa in questo periodo storico, forse collegato alla situazione pandemica, che sta spingendo molti artisti cinematografici a fare i conti con il proprio passato e la propria storia famigliare. Superati i 50 anni di carriera “ufficiale”, alla sua opera numero 34, Steven Spielberg mette da parte eroi, viaggiatori, archeologi, ribelli, soldati, dinosauri ed esploratori, per raccontare se stesso, la sua infanzia e adolescenza e il suo amore per il cinema. The Fabelmans è il suo film più personale e autentico, un torrenziale viaggio nel tempo che (insieme al documentario Spielberg del 2017) è una tappa fondamentale per capire la sua cinematografia e la sua poetica.

Come già ha fatto Paolo Sorrentino con È stata la mano di Dio, il regista più popolare di Hollywood torna ragazzo e in un’autobiografia tenera e struggente trasfigura i suoi genitori Arnold Spielberg e Leah Adler (entrambi scomparsi da pochi anni) nei Fabelman, cognome scelto non certo a caso, vista l’atmosfera fiabesca e intrisa di nostalgia che si amalgama con grazia in una ricostruzione dolceamara in cui il regista fa i conti non solo con i ricordi più dolci ma anche con i dolori, i traumi, il conflitto interiore tra l’amore per la famiglia e quello pulsante e insopprimibile per il cinema. Le origini ebraiche, la vita famigliare, i trasferimenti dal New Jersey all’Arizona e ancora in California, i primi cortometraggi realizzati sin dall’infanzia: dietro lo sguardo sognante e spaesato di Sammy Fabelman c’è tutto Spielberg, le sue passioni e la sua vita raccontata a cuore aperto. C’è l’elegia dell’America degli anni ’50 e ’60 che ha la stessa vitalità con cui Licorice Pizza di P.T. Anderson ha raccontato i ’70. C’è l’incanto di fronte al grande schermo e alla magia illusoria e catartica del cinema come nell’altrettanto sincero ma meno riuscito Belfast di Kenneth Branagh.

È dunque un capolavoro The Fabelmans? Sicuramente travolgente per gli spielberghiani più accaniti, probabilmente non è il lavoro migliore del regista, vuoi per la lunghezza un filo eccessiva che per alcune caratterizzazioni (in primis la madre interpretata da Michelle Williams, personaggio che nella sua eccentricità ed esuberanza risulta respingente). Eppure la sua forza sta proprio nel suo vivere di emozioni pure al di là delle sue imperfezioni, perché Spielberg, anziché obbedire agli standard narrativi di un classico coming of age, ha preferito giustapporre ricordi e aneddoti, portandoci attraverso l’universo stratificato del suo immaginario che forse può essere goduto appieno solo con più visioni del film e che ci trascina da un’autocitazione all’altra (tanto per citarne un paio, scopriamo la “realtà” dietro alla scimmietta de I predatori dell’arca perduta o ai boyscout di Indiana Jones e l’ultima crociata). E pazienza se molti personaggi sono sopra le righe, o se Sammy/Steven cambia incomprensibilmente colore degli occhi crescendo. Affabulatore come dice il nomen omen del suo alter ego, Spielberg racconta e si racconta con un candore disarmante. E, per qualunque amante del cinema classico americano, la sequenza con uno strepitoso David Lynch che interpreta John Ford è incanto puro.

Voto: 3/4