Un vizio di famiglia di Sébastien Marnier, la recensione

Un vizio di famiglia, la recensione: la recita del male - Movieplayer.it

Che periodo straordinario per il cinema francese, che si sta confermando tra i bacini più interessanti per il cinema di qualità in questi mesi, dall’acclamato Saint Omer al potentissimo Athena, passando per un piccolo gioiello come Un altro mondo. Quest’ottimo stato di salute, in un momento in cui si arranca tra un cinema americano con pochissime idee (googlate i film Usa in uscita nel 2023: sono quasi tutti sequel, remake o capitoli di saghe) e quello italiano sembra perdersi tra molteplici identità, senza trovarne alcuna, è confermato da Un vizio di famiglia. Visto all’ultima Mostra di Venezia, il film di Sébastien Marnier, è un dramma con venature thriller, un ritratto di famiglia altoborghese cinico e spietato quanto i suoi personaggi, ribadisce inoltre come Laure Calamy sia una delle attrici più brave d’Oltralpe e non solo.

L’origine del male del titolo originale (L’origine du mal) è proprio la famiglia, o più precisamente il patriarcato, quello titanico, assolutista e prevaricatore di Serge (Jacques Weber), padre padrone dalla ricchezza sconfinata (ça va sans dire, qui la dinastia facoltosa è anche espressione del capitalismo più corrotto) e maschio dominante che ha imposto, non a caso, nomi androgini alle figlie. Il resto della famiglia è però composta da donne, in cui si insinua Stéphane, la figlia illegittima mai riconosciuta che vuole un posto in quella casata dove pure l’atmosfera è tutto fuoché felice e serena. Ma Stéphane è davvero chi dice di essere?

Non diciamo oltre per non spoilerare la catena di colpi di scena che infiamma questo carnage di inganni, astio e prevaricazioni che parte un po’ in sordina ma conosce un notevole climax sino a un finale impeccabile e dove ogni elemento è studiato con attenzione: pensiamo alla contrapposizione tra l’esterno squallido da cui proviene la protagonista e la villa signorile che fa da sfondo alla maggior parte delle vicende, dove ogni eleganza aristocratica è accantonata in favore di un accumulo pacchiano di oggetti a manifestare uno sfarzo incontrollato e inutile, un po’ come nella Xanadu di Welles. O alla dicotomia tra i due edifici principali, che sono, per l’appunto, la villa e il carcere, a indicare come l’antieroina che la Calamy si cuce addosso con un talento sorprendente non faccia altro che passare da una prigione all’altra. Marnier inserisce anche alcune curiose e non gratuite trovate formali, come lo split screen e il cambio di formato, che rendono ancora più interessante un racconto via via sempre più crudele e anticonsolatorio, dove non esiste un solo personaggio positivo (eccetto la nipote, che – unica vera pecca del film – non viene abbastanza esplorato) e la natura umana viene esplorata in tutta la sua meschinità e violenza.

Voto: 3/4