VEGAS: BASED ON A TRUE STORY di Amir Naderi (2008)
Luci scintillanti, cappelle matrimoniali aperte 24/7, contanti che viaggiano a velocità supersonica: questa è la mecca del divertimento americana per il grande schermo, meta di lisergici pellegrinaggi (Paura e delirio a Las Vegas) o di addii al celibato dagli esiti tanto sboccati quanto demenziali (Una notte da leoni). Eppure esiste anche un altro, ben più dimesso, risvolto della medaglia, che non viene quasi mai raccontato perché privo di appeal, squallido, deprimente. È il vero volto di Las Vegas, quello fatto di disperazione umana centellinata in silenzio a ogni tiro di slot-machine, quello della povertà estrema, della dipendenza e della desolazione assoluta dei prefabbricati a schiera, che infestano la città al di là della celeberrima e ultrapacchiana Strip, sede di quei monumenti alla falsità cartonata che sono i casino tematici.
È la Vegas che decide di raccontarci l’iraniano Amir Naderi, dopo una permanenza in città di alcuni mesi volta a raccogliere le testimonianze strazianti e disumane delle vittime del gioco e di un agglomerato urbano assurdo, irreale, dove ai fasti artificiali dei monumenti fasulli si mescolano le vicende agghiaccianti della “spazzatura bianca”, “white trash” come sono chiamati negli States i poveracci bianchi.
In quello che è impossibile non riconoscere come un omaggio a Greed, l’immortale capolavoro muto di Erich Von Stroheim, Naderi, con una secchezza di toni sostenuta dal mezzo digitale e da un budget evidentemente basso, ci racconta la storia incredibile ma vera di una famiglia disperata, padre e madre impegnati a tenersi lontani dalla tentazione del gioco, e ragazzino spettatore impotente della miseria umana dei genitori. Unico vanto dei Parker è un fazzoletto di giardino che circonda la loro casetta di latta, un brandello di verde nell’arsura rossastra del Nevada. Sarà proprio questo praticello a diventare il centro della narrazione, quando un sedicente reduce di guerra convincerà papà Parker che sotto le aiuole coltivate con tanta dedizione si trova un mitico tesoro, il bottino di una rapina compiuta negli anni Sessanta leggendario per gli abitanti di Sin City.
Il tarlo instillato nella mente del protagonista condurrà di lì in poi ad un’escalation di follia metaforizzato con la graduale distruzione del giardino e il parallelo svuotamento dell’abitazione, spogliata dei suoi pochi averi nel tentativo di acquistare strumenti sempre più potenti per cercare il denaro sepolto.
Ma se in Greed era il desiderio di non perdere la cospicua somma ottenuta con una vincita a corrompere i protagonisti rivelando la loro natura più abietta, Naderi compie un passo ulteriore nell’abisso della disumanità, dimostrando che alla disperazione basta solo il miraggio di un riscatto, in questo caso economico, per dilagare, inghiottendo tutto quello che si trova sul suo cammino.
Il giovanissimo Zach Thomas, nel ruolo del dodicenne Mitch, prende le redini della faccenda, mantenendo, unico spiraglio di positività e speranza per il futuro, un barlume di raziocinio in quell’ inferno di fango e lamiere che ha sommerso quella che un tempo era la sua casa.
Il film, presentato in concorso al Festival di Venezia 2008, non è mai giunto sul mercato italiano, né in sala né per l’home video, dimostrando ancora una volta come la capacità di riconoscere un ottimo lavoro non sia una delle caratteristiche principali dei distributori nostrani.