Venezia 79, la recensione di Love Life

Non solo Hirokazu Kore’eda e Ryūsuke Hamaguchi: il cinema giapponese più intimista continua a regalare perle come questo Love Life di Kōji Fukada, regista già premiato all’Un Certain Regard di Cannes con Harmonium. In concorso a Venezia 79, il film ruota intorno a una famiglia per così dire “allargata”. Taeko è sposata da poco con Jiro: lei ha un figlio da un precedente matrimonio, lui una ex tradita che pensa ancora a lui. Un’indicibile tragedia rompe l’equilibrio e riporta nella vita di Taeko l’ex marito.

Con ritmi dilatati e grande delicatezza, Fukada racconta un’elaborazione del lutto senza abbandonarsi a facili cliché e alla retorica del dolore, fondendo questo tema con quello del passato che ritorna e con cui bisogna fare i conti. L’impostazione è corale ma il centro focale è Taeko, con il suo tentativo di superare la tragedia più straziante che una famiglia possa vivere e il suo mettere in discussione la propria vita a fronte del legame profondo con il suo vissuto personale e il primo amore. Perché il passato non si può dimenticare, come le spiega proprio l’ex Park: i ricordi, anche quando devastanti, devono essere mantenuti. 

Film di una tenerezza assoluta, Love Life si poggia su ottime interpretazioni (bravissima la protagonista Fumino Kimura che ha imparato appositamente la lingua dei segni per le scene con l’ex sordomuto) e su una sceneggiatura che gioca in sottrazione, colma di significato elementi in apparenza collaterali (le scosse di terremoto, l’ossessione di lei per la partita di Othello giocata dal bambino, il gatto) e regala pagine di bel lirismo, soprattutto nell’ultima, splendida, parte.

Voto: 3/4