We Are Who We Are, la recensione della serie di Luca Guadagnino
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Com’è bello il mondo di Luca Guadagnino. Un mondo utopico in cui non esistono minoranze, pregiudizi, differenze di classe ed etichette idiote. O meglio, esistono, eccome se esistono, ma stanno al di fuori, come sfocate, lasciate sullo sfondo: presenze incombenti che permeano tutto come una coltre.
Eppure, pur con tutti i conflitti, la confusione, le solitudini e le rabbie più o meno malcelate, lo spaesamento e le incostanze della stagione dell’adolescenza e delle minacce concrete del momento storico che stiamo affrontando, il mondo di Guadagnino assume le forme di un piccolo e salubre miracolo: un magico antidoto a brutture e degenerazioni del presente che è il frammento cristallino di uno spazio puro e incontaminato.
L’opposto, insomma, della fosca e avvelenata America di Donald Trump (assieme a tutti i suoi più o meno degradati corrispettivi internazionali), ombra oscura che aleggia e s’irradia come uno spettro malefico dagli schermi televisivi sempre accesi di un’America smarrita e lacerata creando un malessere inconscio che dal microcosmo rappresentato si estende fino al mondo reale, quello in cui viviamo oggi e su cui occorrerebbe riflettere: espediente narrativo e presagio latente d’indubbia efficacia e potenza figurativa.
La serie (o film? Anche questo, ci insegna Guadagnino, non è poi così importante) è ambientata nel 2016 (annus horribilis della prima candidatura di Trump che fa da specchio a quella attuale) nel territorio di confine di una base americana situata in un’Italia mai oleografica ma sempre inedita ed intrigante; una zona a sé stante resa sensuale anche nei suoi angoli più segreti grazie alla finezza dello sguardo e alla giustezza della sceneggiatura del regista stesso e di Paolo Giordano e Francesca Manieri: un lavoro capace di osservare con candore e nitidezza lo spettro delle relazioni umane e le peculiarità di ogni ambiente trasfigurandole con nitore ed intelligenza sorprendenti (che bello trovare qualcuno che si ricordi ancora dell’importanza dei dettagli, un antidoto alla genericità imperante).
Ed è sinceramente rinfrescante, di questi tempi e in questo mondo così piagato, minacciato, impaurito e abbattuto da ingiustizie e calamità di ogni sorta (molte delle quali difficilmente controllabili) poter godere di un prodotto così trasparente e rigenerante, semplice e complesso, commovente e delicato. In una parola: libero.
Libero da formule e costrizioni filmiche; libero di restituirci un’atmosfera prima che una storia, di sperimentare con le forme ed il linguaggio audiovisivo (numerose le citazioni, tutte bellissime, in primis i freeze-frames di La jetée), di esplorare e giocare con le infinite possibilità che il medium offre e con i volti e i corpi di attori autentici e poliedrici: una libertà formale che si prolunga e si riflette sui rapporti dei personaggi messi in scena seguendo un’idea bressoniana di cinema e di recitazione che cattura la vita annullando tutto ciò che è superfluo e artificioso e che ci allontanerebbe dunque illusoriamente dal reale.
Sta a noi aggiornarci, “stare al passo”, dice a un certo punto il compianto Karl Lagerfeld attraverso lo schermo di un iPad nel buio di una stanza: chi rimane indietro, ancorato al passato e a sommarie e castranti definizioni, è perduto, destinato a fossilizzarsi. E chi sceglie di non abbandonarsi all’altro accogliendolo in tutta la sua composita e cangiante ricchezza, riconoscendo in esso un’indispensabile e benefica fonte di accrescimento umano e culturale, è destinato a rimanere solo, isolato nella sua chiusura.
Guadagnino lo capisce molto bene e si conferma uno dei pochissimi registi in grado di cogliere ed esplorare a fondo i sentimenti e la stupenda indecifrabilità dell’adolescenza: una dote molto rara.
A capirne e a restituirne i colori e le amarezze, i tumulti e le tristezze, le contraddizioni e le ambiguità, i frutti proibiti e la vitale ed insopprimibile necessità dell’immaginazione e dei sogni; della preziosa capacità di poterci illudere di costruire i nostri mondi e il nostro futuro a dispetto delle frustrazioni dei nostri padri e dei fallimenti dell’età adulta: di tutte quelle angosce che si riverberano su ogni adolescente e su ogni ragazzo più o meno perduto che ad insaputa di chi l’ha cresciuto non trova stimoli, ideali e modelli nella realtà in cui gli è dato vivere.
Perché l’immagine di Trump, con il suo odio pervasivo e col selvaggio innalzamento dei suoi muri, non è un semplice e antitetico parallelismo, ma la personificazione perfetta della paura incombente del male e della guerra, di tutto ciò che non funziona nell’America e nel mondo contemporaneo: di tutte quelle cose di cui non troviamo il coraggio di parlare.
Degli effetti catastrofici della violenza (della guerra ma non solo) e della radicale influenza che questa esercita sulla psiche delle persone che la subiscono; dell’odio e dell’intolleranza, della malinconia e dell’angoscia che permea e accompagna le loro emozioni e le loro vite, le ansie e le rispettive scelte e percorsi di crescita.
È un cammino alla ricerca dell’identità, We Are Who We Are (sottotitolo altrettanto azzeccato: Right Here Right Now), un viaggio nelle incertezze e nelle titubanze della giovinezza e un idillio sull’incanto e le sfumature del cosmopolitismo, del vivere insieme e del (ri)trovarsi; una pacata riflessione sull’inafferrabilità del desiderio e sulla liberazione concreta e simbolica dalle prigioni mentali e materiali che ci tarpano le ali: un invito sussurrato a conoscerci meglio per capire cosa vogliamo e ci aspettiamo dagli altri ma anche sul piacere di donarsi a questi con compassione ed umanità, che è poi il senso dell’esistenza.
Perché se Call Me by Your Name era una splendida meditazione sulla trasmissione della conoscenza e sulla ricerca di se stessi (anche) attraverso la sfera sessuale, We Are Who We Are è il ritratto luminoso della scoperta più intima del proprio io al di là di ogni finzione ed artificio: un tuffo nella nostra essenza oltre il superamento di generi biologici e di qualunque sterile e soffocante banalizzazione ed uno sguardo inedito e armonioso sull’imprevedibile evanescenza degli affetti umani; su quei comportamenti e quelle affinità che come insegnano Goethe e Aristotele non sono mai ricavabili da convenzioni o principi predeterminati.
Le persone, sembra suggerirci Guadagnino con acuta sensibilità, amano racchiudere le cose in definizioni. Succede con i libri, con i quadri, con i film (si pensi ad un regista che si allontana dal proprio tracciato, uno su tutti: Hitchcock con Vertigo, ma l’elenco sarebbe lungo): quando non si riesce ad inquadrare qualcosa e non si ha la pazienza e la volontà di comprenderla, la si rigetta. E così accade anche con le persone.
La diversità spaventa, sconcerta, destabilizza.
Mette in difficoltà.
Lo scontiamo quotidianamente, indirettamente o meno, sulla nostra pelle, ed è questo il triste lascito della politica trumpiana e di ogni reazionarismo.
Ma come potremmo capire chi siamo e cosa vogliamo senza riflettere a fondo e lavorando prima su noi stessi e sui livelli della nostra interiorità? Come potremmo definirci uomini se conduciamo una vita ad insaputa di chi siamo autenticamente? E in che modo potremmo acquisire una simile consapevolezza se non aprendoci alla molteplicità dell’altro abbattendo ogni costrizione mentale e schema predefinito?
Caitlin e Fraser, una criptica e dal fascino dirompente, l’altro introverso ma di contagiosa e variopinta esuberanza (proprio a rimarcare il totale affrancamento dall’aridità di ogni facile stereotipo), sono due atomi non catalogabili; schegge anomale ed impazzite aliene a qualunque contesto e per questo non capite, incomprese in quanto differenti: due anime fragili che cercano il loro posto nel mondo e che vengono automaticamente isolate o guardate con sospetto perché incapaci di esser colte ed apprezzate nella straordinaria unicità che le caratterizza.
Ma forse, in fondo, a loro sta bene così. Perché a loro interessa altro: perché vogliono capire chi sono e che cosa vogliono a dispetto di tutti e del disagio soffocante che avvertono sulla propria pelle; delle storture e dei pregiudizi della società che li circonda e di quei vincoli di amore e odio che li legano alle combattute e onnipresenti figure genitoriali, alla loro intrusiva e spesso goffa dominanza.
E solo attraverso un percorso di crescita e ricognizione di sé fatto di scontri e sussulti, dolori ed ellittiche vaghezze, suoni e canzoni di un tessuto musicale che li segue costantemente e che non è semplicemente un personaggio a sé ma una presenza fondamentale e determinante, approderanno forse alla pienezza di quell’amore (platonico, sessuale, amicale) che conforta e aiuta a guarire, che unisce e che ci cambia e migliora l’esistenza: un cambiamento che non condizionerà soltanto la loro vita ma si ripercuoterà inevitabilmente su quella di tutti, mutandoli per sempre.
Luca Guadagnino ci regala una bellissima pittura. Si prende il suo tempo e lo spezza, lo ferma, lo frammenta, lo dilata: spazza via i cliché, disvela le sensazioni e le sfaccettature dei suoi adolescenti e delle loro eclettiche personalità spostandosi dall’uno all’altro senza fretta e con meravigliosa leggiadria, con un amore ed un rispetto infinito per ognuno di essi che fa tesoro della lezione di Rohmer e di Pialat e forse, per certi aspetti, di Abdellatif Kechiche (ma più aereo e delicato), cogliendo e sublimando attraverso la plasticità dei corpi e la flessuosità della macchina da presa il flusso e l’eterogeneità della vita e dei più piccoli particolari della crescita senza giudizi né sterili didascalismi ma con schiettezza e lievità, divagando dolcemente e tenendosi accortamente lontano da ammiccamenti ed estetizzazioni inutili.
Sono tutti importanti, i suoi personaggi, e noi siamo lì con loro, in quella base, con quei ragazzi e con quei militari, in quell’isola felice ed apparentemente incontaminata.
Capiamo, come accadde con Call Me by Your Name, di volerli conoscere; di voler tornare per un fugace istante a quello che eravamo e che ci siamo lasciati alle spalle: a tutti quei ricordi che avevamo messo da parte nei meandri della memoria e che potremmo riscoprire ed osservare in un’ottica differente. E questa è una cosa importante.
Ci sono momenti di profonda bellezza e verità umana come il rapporto e i dialoghi a fil di voce fra il padre granitico e repubblicano (ma in fin dei conti insicuro) e la figlia confusa ma combattiva e la conseguente delicatezza con cui viene trattato un tema spinoso e facilmente a rischio come l’arrivo delle prima mestruazioni; la relazione intricata e di toccante complicatezza fra una madre egocentrica ed un figlio turbolento e non capito; una gita in barca al calare del sole che è un capolavoro di sottrazione e non detti; l’astrazione di una preghiera e mille altre immagini, luoghi, parole, situazioni e avvenimenti che abbiamo vissuto e che vivremo ancora, ai quali ripenseremo e che porteremo nel cuore.
Perché nel mondo e nello sguardo umanista ma mai didattico e moralizzatore di Guadagnino vige la complessità che è specchio dell’esistenza; non è assurdo trovare un nero che voti destra o una coppia lesbica che abbracci le logiche militariste, perché l’umanità è un qualcosa di complesso e proteiforme, non riducibile ad una formula o racchiudibile nelle stolide e semplicistiche definizioni che Trump vorrebbe: un torrente che scorre con affascinante mutevolezza e che bisogna imparare a guadare con pazienza e con amore; uno slancio e una weltanschauung che ci porta a riscoprire un genuino senso di appartenenza e di speranza nel mondo e nelle persone che ci circondano.
Si finisce con la rinnovata voglia di amare e di essere amati, di cercare di essere persone migliori e di trovare i nostri compagni spirituali e di viaggio; di donarsi a qualcuno e di conoscere sé stessi per capire cosa vogliamo e cerchiamo realmente.
E per un attimo ci si sente meno soli, rispecchiati nella fragilità di queste anime e in quei volti così diversi e così belli nelle loro rispettive individualità e differenze, ripensando a quel che siamo stati e che potremmo trasmettere un domani ai nostri figli, a ciò che avremmo potuto essere e che potremmo essere ancora.
Perché la vita è fluida, liquida, multiforme, in continuo mutamento. Come un fiume.
E We Are Who We Are ce lo ricorda con la grazia e la leggerezza dei maestri.
Voto: 3/4