X-FILES, la recensione della stagione 11
Abbiamo girato l’angolo e abbiamo trovato la verità. Forse. Si è chiusa l’undicesima stagione di X-Files, mettendo probabilmente il punto definitivo su una serie in onda per la prima volta 25 anni fa. Dopo la (solo momentanea) conclusione con la nona annata nel 2002, il cult creato da Chris Carter era tornato nel 2016 con sei nuovi episodi, cui ne sono seguiti altri dieci trasmessi quest’anno, in due stagioni-evento che hanno riportato sul piccolo schermo le avventure degli agenti FBI Fox Mulder (David Duchovny) e Dana Scully (Gillian Anderson). Ha senso un’operazione revival così ardita, pur in un momento in cui remake e sequel sono ormai all’ordine del giorno? Al di là dell’entusiasmo effettivamente raccolto dai fan (i cosiddetti x-philes) che seguono le indagini paranormali di Mulder e Scully da un quarto di secolo, è onesto constatare che questa X-Files è qualcosa di molto diverso e, ahinoi, inferiore, da quella in onda dal 1993 al 2002, che sostanzialmente aveva rivoluzionato la qualità delle serie tv. Eppure, nonostante tutto, non possiamo fare a meno di consigliarne la visione.
X-Files 11 si apre con My Struggle III, che si riallaccia direttamente ai due episodi con lo stesso titolo della decima stagione, annullando però del tutto quanto visto in My Struggle II e incentrando definitivamente la mitologia della serie (ovvero la linea narrativa orizzontale dedicata alla cospirazione aliena, da distinguersi rispetto agli episodi standalone) sulla ricerca da parte di Mulder e Scully del figlio William, dato in adozione 15 anni prima. Un episodio che apre l’annata davvero malamente, con un andamento impacciato e senza capo né coda. Mancano la finezza di sceneggiatura, la qualità tecnica e registica, lo stile autoriale che erano elementi distintivi della serie originale, senza contare le deludenti musiche di Mark Snow, assai lontane dalle partiture straordinarie del passato. Per non parlare, infine, del perfido colpo di scena finale che riguarda William e L’Uomo che fuma (William B. Davis).

Insomma, dopo un inizio così imbarazzante e lontano anni luce anche dai più stanchi episodi mitologici delle stagioni 8-9, la tentazione di abbandonare la visione è forte e non aiuta certo la confusione di This, standalone che ripropone tuttavia la villain già vista in My Struggle III, la Erika Price interpretata da un’efficace Barbara Hershey. Dopo un inizio action che onestamente c’entra davvero poco con lo stile della serie, la trama vira verso una nuova fenomenologia complottistica che vede l’Fbi alleata ad agenzie private dai metodi a dir poco criminali e l’esistenza di un’arcana realtà virtuale alternativa creata dai nuovi cattivoni che cospirano nell’ombra. Sostanzialmente incomprensibile, This se non altro ha il pregio di far tornare “in vita” il mitico Langly (Dean Hanglund) dei Lone Gunmen/Pistoleri Solitari, di parlare di un argomento molto attuale come la sorveglianza dei cittadini americani da parte dell’Nsa – con la location dell’autentico Titanpointe, il grattacielo-spia citato da Snowden – e di regalare una chicca ai fan, quale la rivelazione dell’identità del celebre informatore di Mulder, Gola Profonda. Per la cronaca, si chiama Ronald Pakula, evidente omaggio al regista di Tutti gli uomini del Presidente.
Fortunatamente, le cose cambiano con il terzo episodio: da questo momento, per quanto comunque inferiore rispetto ai tempi d’oro, questa undicesima stagione regalerà non pochi guizzi interessanti. In Plus One Mulder e Scully sono finalmente impegnati in una vera e propria indagine old style nell’inquietante mondo della provincia americana che tradizionalmente fa da sfondo alla serie. Al centro c’è l’elemento del doppelgänger, con una serie di morti misteriose connesse a una coppia di gemelli, uomo e donna, che a loro volta si sdoppiano nei rispettivi duplicati malvagi. Un episodio non perfetto eppure affascinante, per la parentesi “romantica” che risolve finalmente i rapporti tra i due protagonisti e per la straordinaria interpretazione della bravissima Karin Konoval, che in X-Files fu già la sinistra mamma Peacock nell’episodio Home della quarta stagione e che qui è impegnata addirittura in un quadruplo ruolo.

Uno dei punti più alti della stagione è poi raggiunto in The Lost Art of Forehead Sweat, affidato alla verve ironica e sarcastica dello sceneggiatore (amatissimo dagli x-philes) Darin Morgan, la cui caratteristica principale è sempre stata quella di prendere adorabilmente in giro la serie e i personaggi in una versione umoristica e postmoderna. Superiore al già divertente Mulder & Scully Meet the Were-Monster della decima stagione, questo episodio è un compendio dell’X-Files style e al tempo stesso la sua parodia, un complicatissimo puzzle giocato intorno all’Effetto Mandela, il fenomeno per cui alcune persone condividono ricordi leggermente alterati di fatti reali (una distorsione della memoria collettiva che, secondo qualcuno, proverebbe l’esistenza di universi paralleli). Chiaramente indirizzato a un pubblico di conoscitori della serie, The Lost Art è un instant cult, una girandola infinita di citazioni e autocitazioni che riscrive l’intera storia di Mulder e Scully con l’inserimento del folle Reggie (Brian Huskey) e l’utilizzo di spezzoni dei vecchi episodi modificati con il digital composing. Da Ai confini della realtà a Ultimatum alla Terra, i riferimenti al genere sci-fi si sprecano ed è indubbia la potenza visiva dell’episodio, un vero e proprio atto d’amore ai fan con annessa critica all’America di Trump.
Si cambia completamente con il quinto episodio Ghouli, finalmente incentrato sulla figura di William (interpretato da Miles Robbins) che scopriamo dotato di poteri molto speciali. Narrativamente decisivo ma non eccelso, con una svolta discutibile (l’origine del ragazzo è attribuita a un progetto di umani-alieni chiamato Crossroads, una spiegazione che sembra cancellare nove stagioni di mitologia a colpi di spugna), Ghouli merita però di essere ricordato per la sua natura ibrida: parte come uno standalone sul classico monster of the week per poi svelare la sua appartenenza al filone mitologico.
Segue Kitten, episodio incentrato sulla figura di Walter Skinner (Mitch Pileggi), capo di Mulder e Scully e loro alleato (spesso ambiguo). Con la partecipazione della guest star Haley Joel Osment, è una riflessione critica sul grande rimosso della storia americana, ovvero la guerra in Vietnam. Non mancano momenti suggestivi e vi si rintraccia una tendenza che percorre come una vena sotterranea questa undicesima stagione: l’autocitazione rispetto a episodi storici, cosicché Kitten ricorda per certi aspetti 2X03 Blood, Familiar richiamerà tra gli altri 2X21 Calusari e l’inizio di Nothing Lasts Forever ricorderà 4X06 Sanguinarium, solo per citare alcune delle numerose strizzatine d’occhio ai fan storici.

Veniamo quindi all’episodio decisamente più riuscito: Rm9sbG93ZXJz, un oggetto bizzarro e sibillino già nel titolo, che non significa altro che “Followers” in codice base64. Oggettivamente, un finissimo gioiellino d’autore di perturbante efficacia sulla “rivolta delle macchine” e sulle implicazioni aberranti della tecnologia (non di un remoto futuro, ma quella che ci accompagna già oggi). È la fantascienza distopica e realista in cui negli ultimi anni l’ha fatta da padrone la serie cult Black Mirror: un paragone non casuale, dal momento che l’episodio contiene persino un cane-robot simile a quello visto nell’episodio Metalhead della produzione di Charlie Brooker. Ci si consenta tuttava di dire che la puntata 6 di X-Files 11 è probabilmente migliore di tutta l’ultima stagione (inferiore alle precedenti) della stessa Black Mirror. Non solo per l’inquietudine mista a ironia, ma soprattutto per il suo sperimentalismo radicale: Rm9sbG93ZXJz è quasi interamente privo di dialoghi, costruito in tempo reale e adorabilmente citazionistico, da Edward Hopper (ed Eric Joyner) a Gli uccelli di Hitchcock.
La capacità di leggere la realtà contemporanea così come quella di intercettare i recenti modelli cinematografici e televisivi è indubbia in X-Files 11, come ribadisce Familiar, che parte con un evidente omaggio a It (guarda caso, l’adattamento cinematografico del 2017 è il più grande successo horror di sempre) ma, dietro a una storia di bambini barbaramente uccisi e arcani incantesimi di magia nera, sottende una più concreta critica al giustizialismo cieco della società americana. C’è da chiedersi dove sia finita la suspense e l’orrore puro cui la serie di Chris Carter ci aveva abituati, ma in Familiar non mancano trovate visive agghiaccianti: in primis i paradossali pupazzi idolatrati dai bimbi, Mr. Chuckleteeth (con tanto di canzoncina in stile Profondo rosso) e i Bibble Tickles, terrificanti sosia dei (già di per sé inquietanti) Teletubbies.

Ci si avvicina alla conclusione con Nothing Lasts Forever, l’episodio decisamente più splatter. Il tema è l’ossessione per la bellezza e l’eterna giovinezza, incarnato da una setta di abulici cannibali che eliminano le proprie deformità nutrendosi di sangue e organi umani, guidata da un’estrosa attrice e da un folle chirurgo. Davvero raccapricciante e fascinoso al tempo stesso, con due guest, Fiona Vroom e Jere Burns, eccezionali.
Infine, My Struggle IV chiude il cerchio (per sempre o c’è la possibilità di una dodicesima stagione?). Finalmente conosciamo davvero le potenzialità di William, finalmente Mulder e Scully ne portano a termine la ricerca. Il finale, com’era da prevedersi, è aperto, per nulla risolto e – ancora – con un coup de théâtre tutt’altro che convincente. A parte la discutibile dipartita di alcuni personaggi, tutto si chiude in fretta e in modo troppo approssimativo. Per questo, ci piace pensare che il vero finale di X-Files 11 sia in quel momento d’amore di Nothing Lasts Forever che vede Mulder e Scully in chiesa, davanti alle candele, spiegarsi una volta per tutte qual è il legame che li unisce. Con lei che gli sussurra all’orecchio parole che a noi non è concesso sentire (come in In the Mood for Love?), ma che non smetteremo di immaginare.
Voto: 2/4
