HUGO CABRET di Martin Scorsese (2012)

hugoUn viaggio attraverso l’impossibile. Così si può (estremamente) sintetizzare Hugo Cabret, l’ultima opera (e già tra le più importanti della carriera) di Martin Scorsese.

Un viaggio che parte da Parigi, proprio come quello del cinema, iniziato al Grand Café des Capucines il 28 dicembre 1895, data convenzionale più che ufficiale, quando i fratelli Lumière fecero la loro prima proiezione pubblica.
Un viaggio che appare come il più personale e sentito, da tanti(ssimi) anni a questa parte, del regista newyorkese: eppure, chi l’avrebbe mai detto qualche mese fa, vedendo un trailer retorico e ricattatorio, che pareva preannunciare una pellicola simil-fantasy per famiglie?

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DAL TRAMONTO ALL’ALBA di Robert Rodriguez (1996)

Tarantino e Clooney fratelli di sangue: Dal tramonto all'alba compie 20  anni- Film.it

Per un ragazzino di 12 anni la parola cinema significa cartoni animati o film della sera (visti odiosamente a metà perché il giorno dopo bisogna svegliarsi presto). Questa visione distorta e distratta cambia miracolosamente un pomeriggio in cui, dall’interminabile collezione paterna di VHS, si decide di vedere un film che dà il via a una passione irreversibile. Dal Tramonto all’alba (From Dusk Till Dawn), diretto da Robert Rodriguez e sceneggiato da Quentin Tarantino, è divertimento puro e cazzeggio all’ennesima potenza, le due priorità per un dodicenne poco smaliziato.

La trama è costruita sulla base di uno schema ripreso dal maestro dell’horror Stephen King: prima bisogna disorientare il pubblico con una storia “normale” e dei protagonisti in cui è facile immedesimarsi. Quando tutto sembra ormai definito, deve avvenire la svolta che stupisce e che catapulta lo spettatore dritto in pasto alla paura.

 

 

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THE BLUES BROTHERS di John Landis (1980)

A tutto Blues: Brothers, e non solo - la Repubblica

“Sì! Sì! Gesù Cristo ha compiuto il miracolo! Ho visto la luce!”

Joliet Jake Blues

Può un film condizionare l’esistenza? Può plasmare (o plagiare, come preferite) una persona al punto da spingerla a rivederlo, in media, una volta alla settimana da anni? Portarla ad imparare ogni singola battuta a memoria e a citarla, suscitando ilarità e/o sgomento tra gli amici più intimi? A farsi tatuare con esplicito riferimento ai suoi protagonisti?

Ebbene sì, tutto ciò è possibile. Eccomi. Trent’anni, di cui ventiquattro passati ad essere irrimediabilmente ossessionata da una pellicola. A questo punto, molti di voi potrebbero aspettarsi un’opera di immenso valore ideologico e culturale, entrata nella storia del cinema per il suo altissimo e profondissimo messaggio intrinseco; ma, dato il titolo di riferimento, qualcuno si starà ponendo più di una domanda.

 

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SENTIERI SELVAGGI di John Ford (1956)

The Searchers (1956) - Ritz Cinemas

“Let’s go home, Debbie”

Sono le parole che John Wayne pronuncia nel finale di Sentieri selvaggi, sollevando tra le braccia la nipote che fino a un momento prima voleva uccidere perché “contaminata” da un matrimonio indiano: bene, se in quel momento non vi commuovete, probabilmente è perché avete un cuore di pietra. Questo squarcio di tenerezza che irrompe improvvisamente in un film colmo di violenza è forse la sequenza più amata di uno dei migliori western di sempre, che non a caso un certo Martin Scorsese considera il più grande film americano mai prodotto.

Insolitamente crudo e realista per essere stato girato in quel 1956 ancora ben lontano dalla stagione “matura” del western, Sentieri selvaggi costituisce la summa dell’intera poetica di John Ford ed è probabilmente il suo lavoro più perfetto, più maestoso, più personale. Il segno tangibile del raggiungimento di un preciso stile narrativo ed estetico che ha ispirato le successive generazioni di registi americani, la resa in immagini di una weltanschauung ormai inevitabilmente amara, disillusa e crepuscolare.

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FREAKS di Tod Browning (1932)

Il film della settimana: Freaks (1932) - Word to Working

“They didn’t ask to be brought into the world, but into the world they came”.

Mostrare l’immostrabile, spettacolarizzare l’inguardabile, costringere lo spettatore a fare i conti con un’umanità altra, talmente disprezzata e disprezzabile da non sembrare nemmeno parte della stessa categoria di viventi. E farlo con una grazia inimitabile, entrando in punta di piedi nei carrozzoni fatiscenti dove si annida questa strana tribù para-umana, guardando a questi figli sfortunati, o a quel che resta di loro, con l’occhio commosso e impermeabile al reale tipico della madre dello scarafaggio.

È l’impresa compiuta da Tod Browning, già autore di numerose pellicole mute che sfioravano o abbracciavano il tema “fenomeni da baraccone” (come il dimenticato e splendido Lo sconosciuto) con Freaks, che si affaccia al 1932 pieno di ambizioni destinate naturalmente ad essere frustrate. Incompreso, maltrattato, tacciato di turpitudine ed immoralità, questo capolavoro della settima arte viene rinnegato insieme al suo autore, recuperato come cult-movie dai fanatici dell’horror (peraltro incomprensibilmente) solo trent’anni dopo e a tutt’oggi non ancora del tutto sdoganato.

 

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L’arte dell’adattamento: David Cronenberg (5)

 

Esiste una benigna psicopatologia che ci chiama a sé. Per esempio, un incidente stradale è un evento legato alla fertilità anziché alla distruzione; è una liberazione di energia sessuale […], con un’intensità che è impossibile in ogni altra forma. Sperimentare certe cose, viverle… Questo è il mio progetto.” (Robert Vaughan a James Ballard, Crash, David Cronenberg, 1996)
 
Non poteva esistere modo migliore per concludere il ciclo sulle trasposizioni cinematografiche ad opera di David Cronenberg. Il regista canadese trova, nel romanzo Crash (scritto da James Graham Ballard nel 1973), pane per le sue ossessioni, realizzando un assoluto capolavoro su un mondo ormai disumanizzato e vincolato/ossessionato a/da nuove forme di tecnologia.
 

 

 

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Adattando Naked Lunch, da Burroughs a Cronenberg

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«Mi sono svegliato dalla Malattia a quarantacinque anni, calmo e sano di mente, e in condizioni di salute ragionevolmente buone non fosse stato per il fegato debilitato e quell’aspetto di carne in prestito comune a chi è sopravvissuto alla Malattia… quasi nessuno ricorda il delirio nei dettagli. A quanto pare io ho preso appunti dettagliati sia sulla malattia che sul delirio. Non ho un ricordo preciso degli appunti presi e ora pubblicati con il titolo Pasto nudo». 

Così William S. Burroughs apre la prefazione del suo romanzo più celebre, Naked Lunch, pubblicato nel 1959 da una piccola e coraggiosa casa editrice francese, la Olympia Press, con il titolo Le festin nu.

Il pubblico americano dovette attendere invece il 1962 per leggere il terzo romanzo (i precedenti erano La scimmia sulla schiena e Queer) del maestro della beat generation, guru di Jack Kerouac e Allen Ginsberg.

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L’arte dell’adattamento: David Cronenberg (3)

Inseparabili: ossessioni e solitudine del doppio

 

Eccoci arrivati al terzo appuntamento dedicato al regista David Cronenberg e alle sue trasposizioni cinematografiche; questa volta, oggetto dell’analisi è il film Inseparabili (Dead Ringers, 1988), tratto dal romanzo Twins (1977) di Barri Wood e Jack Geasland, a sua volta ispirato ad un caso di cronaca (nel 1975 i corpi dei gemelli Steven e Cyril Marcus, noti ginecologi newyorkesi, furono trovati decomposti ed avvinghiati in un appartamento dell’Upper East Side di Manhattan: i due si erano suicidati con una dose letale di barbiturici).

 

 

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L’arte dell’adattamento: David Cronenberg (2)

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Langelaan, Neumann, Cronenberg: genesi di un insetto

Diretto da David Cronenberg nel 1986, il film La Mosca nasconde in realtà una genesi interessante, che ben trasmette quel senso di trasformazione e cambiamento che sarà poi mostrato sullo schermo.

La base della storia viene offerta da un piccolo racconto (The Fly) scritto da Georg Langelaan nel 1957. Sia pure con una trama diversa e con uno sviluppo divergente rispetto al film di Cronenberg, il racconto fornisce già l’intuizione del corpo mutato a causa di una scienza che ha oltrepassato i limiti del legittimo.

 

 

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L’arte dell’adattamento: David Cronenberg (1)

la zona_morta

Stephen King

Appunti dalla zona morta

Scrivere e/o parlare di David Cronenberg non è impresa semplice. Da quando è stato riconosciuto come uno dei registi più originali e coerenti (dote rara) del cinema contemporaneo, l’artista canadese è stato definito in svariati modi, uno dei quali (senza dubbio il più ricorrente) è “profeta della Nuova Carne”. Seppure riduttivo e abusato, il concetto aiuta a tirare le fila del cinema cronenberghiano, mettendo in luce i tratti principali della sua poetica: il terrore dell’uomo (nonché una morbosa fascinazione) di fronte alla mutazione del corpo, all’infezione, al contagio. A partire dai primi film cosiddetti “underground” (Il demone sotto la pelle, Rabid sete di sangue, Brood – La covata malefica), passando per rivelazioni assolute (Scanners, Videodrome), arriviamo al successo di critica e di pubblico con La zona morta (1983), dal romanzo omonimo di Stephen King del 1979. Pur avendo già trattato lo scrittore in relazione a Kubrick e a Shining, questo specifico caso di trasposizione, insieme ad altri (dello stesso regista) che sono seguiti, mi sembrano particolarmente interessanti, tanto da prospettare un ciclo dedicato agli adattamenti realizzati da Cronenberg per il cinema (oltre alla Zona morta, penso a La mosca, Inseparabili, Il pasto nudo e Crash).

 

 

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AMABILI RESTI (2002)

 

Mi chiamavo Salmon, come il pesce. Nome di battesimo: Susie. Avevo quattordici anni quando fui uccisa, il 6 dicembre del 1973.

Susie Salmon è assassinata da un serial killer, suo vicino di casa, che la stupra, la fa a pezzi e nasconde i resti del cadavere in cantina. A narrare gli avvenimenti che seguono la sua morte è lei stessa, imprigionata in un limbo, una sorta di Paradiso personale: la ragazza assiste alla disperazione dei genitori e dei fratelli, incapaci di rassegnarsi alla sua scomparsa, e alla quotidianità dell’assassino, sfuggito alla giustizia e pronto ad uccidere di nuovo. La scrittrice statunitense Alice Sebold ci regala un romanzo coraggioso ed emotivamente coinvolgente: la decisione di attribuire a Susie il ruolo di voce narrante contribuisce ad avvolgere la storia in un’aura straniante, quasi onirica, e guida il lettore verso una partecipazione emotiva fortissima nei confronti della sfortunata protagonista.

 

 

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I GOONIES di Richard Donner (1985)

Forse più si cresce e più si è sensibili alla nostalgia. Deve essere per questo che, scorrendo i titoli presenti nella mia videoteca, il mio sguardo si ferma sempre su quelli con i quali, non posso negarlo, ho dei legami particolari che nulla o quasi hanno a che vedere con il valore artistico o l’importanza dei nomi coinvolti.

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2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968)

2001: Odissea nello spazio - Film (1968) - MYmovies.it

Oltre. Semplicemente. Cos’altro si pió scrivere oggi su2001: Odissea nello spazio? Era il 1968, la prima fu il 2 aprile a Washington D.C., quando la storia del cinema ebbe un sussulto.

Stanley Kubrick ce l’aveva fatta: l’opera totale, sinestetica, che sarebbe diventata la pellicola del secolo aveva fatto capolino sul grande schermo.

 

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LA TALPA di Tomas Alfredson (2012)

 

L’Unione Sovietica è stata una superpotenza sia a livello militare sia a livello scacchistico. Il paese guidato da Chruščëv ha combattuto l’occidente con minacce, deterrenza e sotterfugi. Sulla scacchiera ideata da John le Carré e trasposta cinematograficamente da Tomas Alfredson nessuno affronta a viso aperto il nemico, ma si cerca di vincere anticipando le mosse avversarie. Il modo migliore per raggiungere quest’obiettivo consiste nell’infiltrare La Talpa, una pedina che consegna le strategie della propria squadra alla controparte. All’interno del mitico MI6 (servizio segreto britannico) i pezzi su cui aleggia il sospetto di tradimento sono Colin Firth, Toby Jones, Ciaràn Hinds e David Dencik. Toccherà al neo-pensionato Gary Oldman scoprire chi nasconde una doppia identità. Degna di nota è la partecipazione di Mark Strong, John Hurt, Tom Hardy e Benedict Cumberbatch.

 

 

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