A colui che cerca l’impossibile, è giusto che sia negato anche il possibile
Miguel de Cervantes
Due uomini camminano fianco a fianco per le strade di un paesaggio desolato. Uno è alto e prestante, indossa i panni dell’eroe senza macchia e paura e ha un incedere sicuro, petto in fuori e pancia in dentro, passo scanzonato e sorriso a trentadue splendidi denti. L’altro è piccolo e sporco, pavido e sospettoso come chi non si fida di se stesso, prima che degli altri, e traballa sghembo sulle sue gambe storpie.
Sono in cerca di avventure fantastiche, di ricchezze immaginate, di un riscatto edenico e definitivo, di un luogo dove dare finalmente forma ai propri sogni. Il primo uomo, quello alto, vagheggia di un amore perduto, di una donna angelicata e demoniaca a un tempo, i cui sussurri appassionati permeano i suoi ricordi sfocati e riscritti come una ragnatela d’argento.
Una classica coppia humpsy bumpsy, contrapposti prima di tutto fisicamente e poi, impareremo, nel temperamento e nell’atteggiamento verso la vita. Don Quijote e Sancho Panza. Oppure John Buck (Jon Voight) ed Enrico Salvatore Rizzo (Dustin Hoffman), detto “Sozzo”, in Un uomo da marciapiede di John Schlesinger (1968).
Le differenze sono sottili: poco importa che alla desolazione desertica della Mancha assolata si sostituisca la solitudine assoluta ed ermetica della Grande Mela quasi al culmine della propria marcescenza (che ora, a furia di riqualificazioni e operazioni di pulizia di dubbia moralità, sembra lontana. Ma che tra i Sessanta e i Novanta l’aveva resa una delle città meno ospitali e più pericolose d’America).
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