Aspettando Venezia 69: i film in concorso e le sezioni collaterali

venezia 69_definita_la_giuriaPrenderà il via al Lido di Venezia il 29 agosto, per poi concludersi l’8 settembre, la 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, uno degli eventi più attesi da tutti gli amanti della Settima Arte e non solo. Inserita nel più ampio contesto della Biennale di Venezia, quest’anno la rassegna, giunta ormai al suo 80° anno di vita, confermandosi come il più antico (e prestigioso, aggiungerei) Festival del cinema al mondo, presenta un’importante novità: in veste di direttore artistico torna il critico cinematografico Alberto Barbera, dopo aver già ricoperto questo autorevole ruolo dal 1998 al 2002.

 

 

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BED TIME di Jaume Balaguerò (2011)

BedTime LocandinaForse Balaguerò soffre di claustrofobia, o forse della sindrome post-11 settembre per cui non ci si sente più sicuri nemmeno a casa propria. Di sicuro l’ossessività con cui ricorre nelle sue pellicole il tema del pericolo domestico dà da pensare.

A cominciare da Fragile-a Ghost Story del 2005 ambientato in un ospedale per bambini sull’isola di Wight (doppia compressione degli spazi: la struttura ospedaliera e l’isola), il regista spagnolo restringe ulteriormente il campo già con Para entrar a vivir (2006), precursore di Bed Time, dove una gentile agente immobiliare si trasforma in un’aguzzina che sequestra i possibili acquirenti in un appartamento.

I fasti di REC (2007), finora suo unico successo internazionale, insistono sul tema del condominio maledetto, rappresentando le vicende claustrofobiche degli abitanti di un complesso costretti all’isolamento dall’esplodere di una terribile e letale epidemia.

Con Bed Time (titolo italiano come spesso accade imbarazzante, che in spagnolo suona più intelligentemente Mientras duermes) Balaguerò si libera di elementi soprannaturali e fantascientifici per affidare totalmente l’intricato sviluppo delle vicende alla crudeltà umana.

 

 

 

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DIAZ di Daniele Vicari (2012)

Ci sono film fatti per il grande pubblico, che pensano a come sfruttarne gusti ed esigenze con il chiaro scopo di conquistare il botteghino. E ci sono film fatti dall’autore per l’autore stesso, che non si pongono come obiettivo il favore delle masse ma il riconoscimento estetico e che spesso si rivelano esercizi autoreferenziali. Due categorie ugualmente rispettabili, ovviamente.

Ma esistono, altresì, dei film, fatti più con il cuore che con la testa, il cui scopo trascende la dimensione cinematografica stessa. Diaz è uno di questi. Ecco perché vale la pena di riparlarne, specie ora che, grazie a una delle poche manovre distributive intelligenti viste in Italia da molti anni a questa parte, il film è tornato nelle sale in seguito alla sentenza della Cassazione, che ha confermato le condanne per i responsabili delle violenze del luglio 2001.

 

 

 

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LA LEGGENDA DEL CACCIATORE DI VAMPIRI di Timur Bekmambetov (2012)

la leggenda del cacciatore di vampiri“La storia predilige le leggende”: così recita l’incipit, affidato alla voce narrante del protagonista, de La leggenda del cacciatore di vampiri, diretto dal regista Timur Bekmambetov (Wanted – Scegli il tuo destino, 2008) e tratto dal romanzo Abraham Lincoln, Vampire Hunter di Seth Graham-Smith, che si è occupato personalmente della sceneggiatura.

In questo caso, però, sarebbe stato opportuno lasciar perdere la leggenda e rispettare la storia.

Il film narra le avventure del giovane Abraham Lincoln, futuro presidente degli Stati Uniti d’America e cacciatore di vampiri per vendicare la morte della madre; il contesto storico della guerra di secessione è riletto, stravolto e trasformato in uno scontro tra un Nord dei “vivi” e un Sud dominato dai “morti”, i vampiri, nel tentativo di una metaforica rappresentazione classista (vampiri = mostri = schiavisti). Tentativo ardito e miseramente fallito, soprattutto se si pensa a come sia stata delineata la figura di Lincoln, novello Neo ante litteram (vedi Matrix) che combatte i suoi incubi incarnati a colpi d’ascia.

 

 

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POM POKO di Isao Takahata (1994)

A volte ci si dimentica che quello della Ghibli è uno “Studio” e pertanto, anche se le opere più note e belle sono quelle del suo fondatore Hayao Miyazaki, al suo interno sono presenti altri autori/collaboratori validissimi che hanno realizzato progetti davvero importanti. Alcuni di tenore diverso, basti pensare all’ inteso dramma a sfondo bellico di Una Tomba per le Lucciole, ma alcuni altri in perfetta sintonia con le opere del Maestro, come se ci fosse un pensiero forte e unico su alcune tematiche ricorrenti, soprattutto quella ecologica ed il rapporto conflittuale tra uomo e natura.

 

 

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Don Chisciotte a New York: convergenze tra “Un uomo da marciapiede” e il capolavoro di Cervantes

A colui che cerca l’impossibile, è giusto che sia negato anche il possibile

 

Miguel de Cervantes

 

 

 Due uomini camminano fianco a fianco per le strade di un paesaggio desolato. Uno è alto e prestante, indossa i panni dell’eroe senza macchia e paura e ha un incedere sicuro, petto in fuori e pancia in dentro, passo scanzonato e sorriso a trentadue splendidi denti. L’altro è piccolo e sporco, pavido e sospettoso come chi non si fida di se stesso, prima che degli altri, e traballa sghembo sulle sue gambe storpie.

Sono in cerca di avventure fantastiche, di ricchezze immaginate, di un riscatto edenico e definitivo, di un luogo dove dare finalmente forma ai propri sogni. Il primo uomo, quello alto, vagheggia di un amore perduto, di una donna angelicata e demoniaca a un tempo, i cui sussurri appassionati permeano i suoi ricordi sfocati e riscritti come una ragnatela d’argento.

Una classica coppia humpsy bumpsy, contrapposti prima di tutto fisicamente e poi, impareremo, nel temperamento e nell’atteggiamento verso la vita. Don Quijote e Sancho Panza. Oppure John Buck (Jon Voight) ed Enrico Salvatore Rizzo (Dustin Hoffman), detto “Sozzo”, in Un uomo da marciapiede di John Schlesinger (1968).

Le differenze sono sottili: poco importa che alla desolazione desertica della Mancha assolata si sostituisca la solitudine assoluta ed ermetica della Grande Mela quasi al culmine della propria marcescenza (che ora, a furia di riqualificazioni e operazioni di pulizia di dubbia moralità, sembra lontana. Ma che tra i Sessanta e i Novanta l’aveva resa una delle città meno ospitali e più pericolose d’America).

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PLAYTIME di Jacques Tati (1967)

La finestra sullo schermo - Playtime ~ Architettura in città 2017

“In Keaton l’espressione è semplice come quella di una bottiglia, ma la bottiglia e il viso di Keaton possiedono punti di vista infiniti”. Così Luis Bunuel commentava l’essenza della comicità senza sorriso di Buster Keaton. Il volto di Keaton come una maschera in cui è possibile leggere infinite variazioni, modulazioni, sfumature espressive. Il più grande erede ed interprete europeo della lezione di Buster Keaton è stato probabilmente Jacques Tati. Riscoprire la grandezza del suo capolavoro “ultimo”, lo straordinario Playtime, significa avventurarsi dentro il miracolo di una visione unica e totale. Perché mai più ripetuta e ripetibile, anche a causa del titanico sforzo produttivo posto in essere per girare il film. E perché nella sua grammatica filmica rinuncia completamente a primi piani e dettagli, perseguendo la strada della osservazione ampia.

Il campo totale di Tati, come la faccia di Buster Keaton, è uno spazio aperto in cui far correre lo sguardo, un “testo” con più tracce sincrone offerte alla nostra lettura. Il campo totale in Playtime è anche la scelta linguistica che consente a Tati di raggiungere l’obiettivo di una visione quanto più simile a quella dell’occhio umano sulla realtà. Ed è all’occhio e all’intelligenza dell’uomo/spettatore che Tati affida il compito della messa a fuoco dinamica, del discernimento fluido, della selezione in tempo reale di cosa guardare nella complessa struttura delle sue inquadrature. Profondità di campo, schermo panoramico, vetri riflettenti. Tutto in Playtime contribuisce a dilatare lo spazio della visione, affidando allo spettatore la responsabilità e la fatica di cercare il dettaglio all’interno di una dimensione allargata.

 

 

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BIANCANEVE E IL CACCIATORE di Rupert Sanders (2012)

Biancaneve-e-il-cacciatore-cover-locandina-7-691x1024Ma come? Un altro Biancaneve nello stesso anno? Domanda lecita, che si sono posti moltissimi spettatori, incuriositi sempre di più da questa moda fiabesca che sta impazzando negli ultimi anni e che ha già toccando gli inferi con Cappuccetto rosso sangue, di Catherine Hardwick, non per nulla regista di Twilight.

Ma, volendo puntualizzare, né Biancaneve e il Cacciatore, né Mirror Mirror (titolo originale del film di Tarsem Singh, che infatti si concentra sul punto di vista della strega) c’entrano con il cartone della Disney, ed è un bene. La storia è nota: la crudele strega Ravenna (Charlize Theron), dopo aver avvelenato il sovrano, si impadronisce del regno e rinchiude la piccola Biancaneve in una torre. Al compimento della maggiore età, Biancaneve (Kristen Stewart) e la sua bellezza diventano l’unico vero pericolo per la regina, in quanto sono in grado di spezzare l’incantesimo che le dona eterna giovinezza. Ravenna assolda un cacciatore (Chris Hemsworth) per uccidere la ragazza, ma come andrà a finire ormai è noto ai più.

 

 

 

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THE LONGEST NITE di Patrick Yau (1998)

A Macao, due triadi rivali guidate da Mr. Key e Mr. Lung, si spartiscono il territorio e le attività criminali mantenendo così un collaudato equilibrio. Il ritorno di Mr. Hung però, un anziano e temutissimo boss, rischia di sconvolgere tutto, soprattutto quando inizia a circolare la voce che Key abbia messo una taglia sulla testa di Lung. Il gravoso compito di impedire che Lung venga ucciso, scatenando una guerra tra triadi, spetta a Sam, poliziotto corrotto al soldo di Key. Ma un altro misterioso giocatore si unisce alla partita, Tony, un killer i cui scopi sono tutt’ altro che chiari.

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THE WAY BACK di Peter Weir (2010)

Al fin giunse: con quasi due anni di ritardo dalla presentazione al Telluride Film Festival 2010, arriva nelle nostre sale The Way Back, l’ultima fatica del grande regista australiano Peter Weir.

In molti l’avevano già dato per un titolo disperso, che mai avrebbe visto il buio dei cinema nostrani: ma, un po’ come i protagonisti stessi della pellicola, dopo un lungo percorso che ha toccato decine di tappe in tutto il mondo, sorprendentemente, anche l’ultima meta (in questo caso la sempre meno battuta Italia) è stata raggiunta.

Ispirato alle memorie di Slawomir Rawicz, The Way Back, ambientato tra il 1939 e il 1942, racconta la fuga di un gruppo di prigionieri da un gulag sovietico: privi di cibo e di un adeguato equipaggiamento, si avventureranno in un viaggio che riserverà loro difficoltà e tragedie inimmaginabili. Dal gelo siberiano al caldo torrido del deserto dei Gobi, il gruppo (sempre meno nutrito col passare dei giorni) camminerà per oltre 6.000 kilometri, fino ad attraversare le cime del Nepal e giungere in India.

 

 

 

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QUELL’IDIOTA DI NOSTRO FRATELLO di Jesse Peretz (2011)

In un mondo perfetto, il simpatico Ned Rochlin, pacioso hippie che fa l’agricoltore biodinamico con il look à la Lebowsky e una costante fiducia nel prossimo, sarebbe un eroe. Ma, nel mondo opportunista e votato all’individualismo più sfrenato in cui viviamo, Ned è considerato un idiota. Tanto da cadere nella trappola di uno sbirro (pure in divisa!) e finire in galera per spaccio d’erba, per poi ritrovarsi, alla fine della permanenza dietro le sbarre, senza casa né fidanzata (fricchettona pure lei ma assai meno simpatica) e soprattutto privato della compagnia dell’adorato cane Obi Wan Kenobi. Non resta, perciò, che trovare rifugio a turno dalle tre amate sorelle, le cui vite saranno sconvolte dal “ciclone Ned”. 

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THE AMAZING SPIDER-MAN di Marc Webb (2012)

A New York la gente è un po’ confusa. L’uomo ragno aveva ormai sconfitto tutti gli avversari. Non c’era più nulla da temere, gli unici problemi rimasti erano la disoccupazione e la crisi economica. Con uno sgradito balzo temporale, gli abitanti della Grande Mela si ritrovano con il naso all’insù chiedendosi perché il super eroe con le ragnatele sia tornato. Il motivo è tutto economico, la Columbia pictures ha fiutato l’affare e si è affidata al Reboot. The Amazing Spider-man in 3D è diretto da Marc Webb ed è interpretato da Andrew Garfield, Emma Stone e Rhys Ifans.

 

 

 

 

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