Senza giri di parole, il punto più basso della carriera di Nolan. Confuso anziché complesso, contorto ai limiti dell’incomprensibilità, estenuante e frastornante, tracimante di spiegoni e scemenze monumentali, di una freddezza frustrante, leccata, compiaciuta.
Il Trento Film Festival, la manifestazione cinematografica dedicata alla montagna la cui 68esima edizione si svolge dal 27 agosto al 2 settembre, diventa anche un evento online. Oltre aslle proiezioni e agli eventi in loco, è possibile vedere i film comodamente seduti sul divano di casa. Basta registrarsi sul sito ufficiale online.trentofestival.it per scoprire le sezioni e i film in programma. Lo streaming parte ufficialmente il 27 agosto, con l’evento online di apertura in contemporanea con l’anteprima a Trento. Ogni giorno nuovi film diventano disponibili sulla piattaforma e tutti i film restano disponibile per una settimana. Inoltre, tutti i cortometraggi (fino a 40 minuti di durata) sono visibili gratis, mentre gli altri titoli sono noleggiabili a 4€ l’uno oppure con il Trento Film Festival online pass a 20€ per accedere all’intera selezione.
Se ancora avessimo avuto qualche dubbio sul fatto che i vari progetti Pixar non rispecchino in toto un’autorialità omogenea e coerente, Onward – Oltre la magia(di qui in avanti solamente Onward) ha il compito di darci l’ennesima conferma. Risulta infatti abbastanza evidente che il percorso intrapreso dalla casa di Emeryville a cominciare dal 1995 (anno d’uscita del loro primo lungometraggio, Toy Story – Il mondo dei giocattoli) sia sempre stato teso a raggiungere l’in(de)finito per poi superarlo, andare oltre. All’inizio del viaggio, gli animatori Pixar hanno condotto il pubblico verso i mondi più immaginifici e lontani dal nostro vissuto (universi popolati da mostri, le profondità dell’oceano, le fogne di Parigi, metropoli salvaguardate da supereroi, villaggi popolati da automobili ecc). Nell’ultima decade, invece, l’infinito tanto bramato ha iniziato a rendersi sempre più concreto e vicino, ma non per questo facilmente raggiungibile. Up, Inside Out, Coco e, appunto, Onward, sono film che lavorano e riflettono sul tema del lutto e dell’aldilà, ovvero della vita oltre la morte. La linea sembra tracciata con solchi evidenti.
Ecco il Palmares di questo anomalo e particolare Festival di Locarno 2020, che si chiude il 15 agosto e si è svolto con modalità inedite e limitate, a causa della pandemia da coronavirus. Ecco la lista completa dei premiati:
Riceviamo e riportiamo di seguito il comunicato con i primi premi assegnati al Festival di Locarno 2020. Ricordiamo che la manifestazione, che si sta svolgendo con visioni in streaming abbinate a proiezioni in loco, si chiuderà il 15 agosto.
Una ragazza di diciassette anni scopre di essere incinta. Così, accompagnata dalla cugina, si dirige a New York per abortire. Qui, una psicologa incaricata di comprendere le ragioni di questa scelta e, soprattutto, la stabilità emotiva della ragazza, la sottopone a un interrogatorio in cui l’adolescente dovrà rispondere usando uno dei quattro avverbi temporali che danno il titolo al film, presentato a Sunbdance Film Festival e poi in concorso alla 70ª edizione del Festival di Berlino, dove ha vinto il Gran Premio della Giuria.
Arriva in sala con ben due anni di ritardo, per giunta nelle difficili condizioni dell’apertura dei cinema post lockdown, la fantascienza d’autore di High Life, presentato nella sezione After Hours del Torino Film Festival 2018. Interpretato daJuliette Binoche e Robert Pattinson, è uno dei film più belli e complessi firmati dalla regista francese Claire Denis, che astrae il suo sguardo alla massima potenza regalando un’esperienza cinematografica d’altri tempi. Un uomo cresce sua figlia dentro una navicella spedita oltre il sistema solare; sono gli unici sopravvissuti dell’equipaggio. La navicella sperduta nello spazio profondo è sicuramente metafora di tante cose: della vita, della morte, della vita dopo la morte. I suoi abitanti siamo tutti noi, con le nostre paure, insicurezze e allucinazioni.
Da Piccolo Cesare a Il padrino, dagli Scarface a Gomorra, difficilmente il pubblico smetterà di essere affascinato dall’universo criminale e dalla figura romantica del gangster, che pure cinema e tv hanno già raccontato in infinite salse. L’ultimo tassello di questa infinita rappresentazione del Male e delle pieghe oscure della società capitalistica è racchiuso in Gangs of London, serie originale Sky creata da Gareth Evans e Matt Flannery che rappresenta uno dei prodotti imperdibili del 2020 e certamente tra i più grandiosi degli ultimi anni. La vicenda prende il via dall’omicidio del potente boss Finn Wallace (Colm Meaney): la sua morte misteriosa scatena la vendetta della famiglia ora guidata dal figlio Sean (Joe Cole) con l’appoggio del braccio destro Ed Dumani (Lucian Msamati), e disgrega il fragile e capillare sistema di alleanze tra i Wallace e le gang londinesi, in un’esplosione di violenza incontrollata. Intanto, il poliziotto sotto copertura Elliott (Sope Dirisu) cerca la fiducia della famiglia Wallace per scardinare il complesso sistema criminale che governa la capitale britannica.
Un grande film dovrebbe possedere almeno tre requisiti fondamentali: investigare l’esperienza umana, farci identificare con gli individui che mette in scena (anche se con noi, quantomeno all’apparenza, hanno poco da spartire) e restituirci l’anima e la personalità di chi sta dietro la macchina da presa: ciò intendendo non attraverso sterili virtuosismi à la Sam Mendes, ma tramite la precisione e l’essenzialità dello sguardo.
Diamanti grezzi (Uncut Gems), secondo film dei fratelli Safdie, è un’opera che incapsula meravigliosamente tutte e tre le componenti.
Perché in questo Carlito’s Way trucido e psichedelico cui dona l’acqua della vita un immenso Adam Sandler mai così tragico e sgargiantemente sublime, è cristallizzata tutta l’inesprimibile contraddittorietà delle più o meno deliranti battaglie che noi tutti combattiamo quotidianamente, delle debolezze e delle mancanze, del furore e della malinconia. In una parola: dell’inadeguatezza.
E quanta straziante umanità e dolcezza, quanta disperata e toccante voglia di fare il salto per emergere dal grigiore svilente della giornaliera mediocrità, quanta encomiabile bravura nel creare un ritmo allucinato e vorticoso in cui tutto combacia con precisione chirurgica alimentandosi e compenetrandosi vicendevolmente e ogni scelta s’intreccia e si sovrappone in un flusso febbrile e ininterrotto di musica, gesti, suoni, parole, scorrere impetuoso e contagiante del denaro e del tempo.
I due fratelli, che non sbagliano un colpo e che sono una stupefacente e prevedibile conferma, maneggiano la materia narrativa come maestri navigati, scelgono volti inediti e perfetti (un autentico colpo di genio trasfigurare in questa maniera il personaggio reale e bigger than life di Kevin Garnett), si destreggiano abilmente fra scarti di ritmo e di stile, omaggi e citazioni, virate di tono e lampi di fantasia: prorompenti alfieri di un cinema lisergico e vorticoso, libero e selvaggio, barocco e rutilante, che ti prende e non ti lascia più, ti scuote e ti confonde, ti ammalia, ti stordisce e t’induce a riflettere su te stesso e su ciò che guardi lasciandoti addosso la sgradevole sensazione di una gelida coperta di fango regalandoti al tempo stesso un inebriante e disperato sorriso; un cinema sovreccitato e genuinamente anarchico che ci sbatte in faccia tutto il caos e la violenza soffocante del mondo ma anche la tenerezza e la tristezza innata di un goffo individuo perennemente ai margini che ricorda a tratti la drogata frenesia dell’Emile Hirsch di Killer Joe, uno dei tanti sgraziati e amabili perdenti ciclicamente sospinti verso il basso da miserie e difetti che si ripercuotono fatalmente su ognuno di noi, e con i quali è impossibile non provare ad identificarsi (se non altro per semplice compassione ed umano sentire).
Un personaggio, questo Howard, in grado di riconsegnarci una confusione che è parte integrante e inestricabile dell’esistenza: un inguaribile, maldestro e caracollante loser col vizio e la foga delle scommesse costantemente accompagnato da un tessuto sonoro che ne segue ed esalta le tragicomiche gesta nell’estatico e chimerico inseguimento della scommessa della vita: quella che potrebbe cambiare tutto o farlo sprofondare ancora più giù, nella burella della perdizione, in un marasma stroboscopico capace di calarci nel suo mondo slabbrato e nella caoticità della sua psiche cogliendo perfettamente l’anima e la poesia sporca di una New York lugubre e kitsch che da anni non si vedeva così vera e pulsante nel suo fuligginoso e infettante squallore.
Perché quegli scatti nevrotici, quelle corse contro il tempo tanto frenetiche quanto vane, gli amori e i sentimenti sbilenchi, le frustrazioni e il disagio penetrante che arduamente riusciamo a comunicare a chi ci sta intorno sono cose che ci toccano da vicino, e che sono parte integrante del nostro vissuto di spettatori e di esseri umani: per questo ci appassioniamo e parteggiamo con la vitalità di questo viscido omuncolo umano, troppo umano che pecca improvvidamente di ὕβϱις, e per questo, fino al termine della corsa, vorremmo istintivamente allontanarlo dal pericolo imminente salvandolo dalla catastrofe, dall’ineludibile resa dei conti di uno di quei finali crudeli e sferzanti che non si vedevano da molto tempo, e che t’incollano alla poltrona mozzandoti il fiato: di quelli a cui assisti stringendo i pugni col cuore in gola e facendo letteralmente il tifo, anche se dentro di te già sai come andrà a finire.
I Safdie, come sottolinea eloquentemente il padre spirituale Scorsese, sono dei banditi. Banditi dello sguardo e del linguaggio filmico: due ragazzacci estrosi, brillanti e ardimentosi che hanno assimilato e immagazzinato il meglio del cinema che li ha formati riplasmandolo sapientemente in un piccolo capolavoro di grazia e di tensione che pare uscito da un’epoca passata ma senza mai risultare sterilmente manierista o fine a sé stesso (Dio benedica la lucente consistenza della pellicola): un gioiello multicolore che riporta alla mente l’energia elettrica e rinfrescante di Mean Streets ma anche gli splendidi funambolismi del miglior De Palma (occhio alla meravigliosa sequenza notturna memore di Body Double), l’intima e toccante universalità del cinema di Cassavetes e la poetica del degrado di Harmony Korine.
Perché l’opale, che racchiude il segreto dell’universo e che viene dalla terra, è parte di Howard e del nostro percorso di individui, delle sconfitte e dei baluginanti fulgori di gioia che costellano le nostre vite e che si dissolvono nel conclusivo movimento di macchina che si ricollega all’infinità del cosmo scavando dentro Howard e dentro di noi, nella sua e nella nostra essenza: perché polvere siamo e polvere ritorneremo.