
Bagel: ciambelle che hanno rinunciato ai propri sogni” John Oliver
Everything Everywhere All at Once è un film strambo e multiforme: non si può ascrivere ad un solo genere, genera sentimenti di fastidio profondi, ma anche un calore molto forte quando parla di rapporti. Evelyn Quad (Michelle Yeoh) è una immigrata cinese che gestisce assieme al marito Waymond (un ritrovato Ke Huy Wang), una lavanderia a gettoni: non sopporta il marito, mal tollera il fatto che la figlia Joy (Stephanie Hsu) sia lesbica e pensava di essere destinata ad una vita migliore. L’arrivo del padre Gong Gong (James Hong) e la richiesta di un prestito per ampliare l’attività, la agitano fortemente.
Presentato in piccoli festival indie e diventato un caso negli Stati Uniti, tanto da essere candidato a 11 premi Oscar, il film inizialmente è molto fastidioso e concitato; la sensazione di frenesia e inadeguatezza ci traghetterà in una favola piene di riferimenti al fantasy, al cinema e alla filosofia. La forza del film è anche il grande livello di citazioni a tipi di cinema diversi: in questo modo il film ha una chiave molto internazionale e multiculturale, ma la base sono i film di kung fu, i combattimenti acrobatici sono ben riusciti e sono una delle parti migliori del film. Per interfacciarsi a questo film è necessario avere la mente aperta e cercare di coglierne gli aspetti più magici, ma spesso la gigioneria prende il sopravento (vedi metaversi improbabili, dildi e premi che sembrano anal plug) a discapito del film stesso.
La ricchezza dell’immagine si scontra con la semplicità e l’universalità del messaggio: l’amore e le relazioni sono le uniche cose importanti che ci permettono di elevarci. Nel film si respira una certa eversione, tipo lo slogan sessantottino “fantasia al potere”, tuttavia l’abbondanza di immagini e di concetti fa sentire lo spettatore sperduto in senso non buono.
Dalla profondità dei concetti filosofici tirati in ballo – la natura infinitesimale dell’uomo, la necessità delle scelte, la scissione dell’io e l’impossibilità per gli esseri umani di non avvicinarsi senza ferirsi (il dilemma del porcospino di Schopenhauer) – ci si aspettava una maggiore profondità nel finale tutto basato sui valori familiari. La messa in scena risulta non idonea al messaggio finale del film (tutta questa storia del metaversi), semplicemente per dirci che la famiglia è importante e che bisogna accettarci come siamo.
Ma il film è anche molto divertente (anche grazie ai combattimenti e alle inventive folli), con un inedita Michelle Yeoh, sempre principessa guerriera, ma comica e spesso non elegante come siamo abituati a vederla nei film precedenti. Yeoh, molto importante per un certo cinema asiatico (action, wuxia e drammi in costume), ha la possibilità di interfacciarsi con un pubblico internazionale e con qualcosa di assolutamente nuovo per un’attrice. Il cast infatti è ben scelto e mischia volti nuovi come Stephanie Hsu a veterani come Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan.
L’aspetto più interessante è lo scontro generazionale rivisto in chiave epica. Se altri film avevano parlato di scontri generazionali, vedi Lady Bird di Greta Gerwig, sempre in una chiave abbastanza classica e parteggiando per le nuove generazioni, l’idea di una versione cattiva della figlia che però insegna alla madre l’importanza di lasciarsi andare e che nulla è importante, ha il sapore dell’incontro tra l’eroe e un saggio; in fondo il film è un vero e proprio viaggio dell’eroe verso una consapevolezza, ma pazzo e kitsch.
La sfida era fare un film fresco, nuovo, divertente, ma anche profondo e con l’idea di creare una nuova forma di cinema. La prima parte della sfida è stata vinta in quanto il film cattura lo spettatore, diverte ed è soprattutto fatto da immagini bellissime, trasuda novità, freschezza per contenuti, messa in scena e regia.
Sulla seconda parte della sfida, invece, il film potrà essere il capostipite di un genere nuovo ed inedito (comedy-fantasy-filosofica), sperando che però i prossimi abbiamo meno idee e più chiare. Il nuovo cinema fatto da giovani cineasti, come i due registi del film soprannominati i Daniels, riprende quello che abbiamo visto con Titane di Julia Ducournau o con il buonissimo film rumeno Bad Luck, Banging or Loony Porn di Radu June: registi che sono cresciuti con il cinema post-moderno e citazionista di Tarantino e Paul Thomas Anderson, dove non è possibile precludere i film ad un unico genere, prendono tutti gli aspetti di quel cinema e li portano all’estremo, creando veri e propri nuovi modi di comunicare, ma il comune denominatore di questi film (chi più, chi meno) è a che alla fine ci sembra di stare in una lavatrice per la quantità massiva di idee con cui si potrebbero fare tre film. Ma ben vengano i film dove la libertà artistica e la voglia di creare nuovi linguaggi comunicativi sono il motore. Fantasia al potere!
Il film riesce nei suoi aspetti estremi: quando è intimista (bellissima la scena delle pietre) e si investigano i rapporti famigliari, oppure nei grandi combattimenti scenici. Ma l’unione tra le due cose risulta non completamente riuscita.
Il risultato è un film scisso dove l’ambizione e la messa in scena è da 4 stelle, ma la chiarezza, l’attenzione dello spettatore e la reperibilità del messaggio è da 2 stelle. Quindi, tre stelle d’incoraggiamento!
Voto: 3/4
Giulia Pugliese