SAG Awards 2023, tutti i vincitori

 SAG Awards 2023, Brendan Fraser e Jamie Lee Curtis tra i vincitori - Ciak  Magazine

Continua la stagione dei premi americani. In attesa degli Oscar, previsti il prossimo 12 marzo, ecco tutti i vincitori dei SAG Awards, assegnati dal sindacato attori e rivolti in particolare alle migliori interpretazioni (protagonisti e non protagonisti, cast, stunt). Si conferma il grande successo che sta ricevendo Everything Everywhere All at Once, mentre Brendan Fraser con The Whale porta a casa l’ennesimo premio per la sua emozionante performance. Ecco tutti i premi, per cinema e serie tv.

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Berlinale 2023, i premi: Orso d’Oro a Sur l’Adamant

Festival di Berlino 2023, Orso d’oro a ‘Sur l’Adamant’ di Nicolas Philibert. Miglior contributo artistico all’italiano ‘Disco boy’

Ancora un documentario, dopo All the Beauty and the Bloodsheed a Venezia 2022, vince un grande festival internazionale. Il francese Sur l’Adamant di Nicholas Philibert ha conquistato l’Orso d’oro alla 73esima edizione della Berlinale, mentre l’italiano Disco Boy ha meritato un premio alla fotografia. Un’annata, quella del festival di Berlino, che è tornata in grande spolvero dopo le restrizioni della pandemia, con un contorno di grandi star sul red carpet da Cate Blanchett a Helen Mirren e John Malkovich (senza tralasciare il premio alla carriera a Steven Spielberg). Ma anche con tanti messaggi politici, contro l’invasione russa in Ucraina e il regime iraniano. Questi i premi assegnati dalla giuria guidata da Kristen Stewart.

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The Whale di Darren Aronofsky, la recensione del film con Brendan Fraser

 

È difficile pensare di scrivere in poche righe un pensiero che renda dignità ad una visione complessa e fortemente emotiva come quella di The Whale. Charlie è un uomo che, obbligato dalla sua obesità all’interno delle proprie mura domestiche, cerca di recuperare un rapporto con la figlia adolescente, Ellie, dopo aver abbandonato lei e la madre per vivere con un nuovo compagno. Purtroppo per Charlie il tempo che ha a disposizione non è più molto.

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Everything Everywhere All at Once, la recensione

Everything Everywhere All At Once, comunque vada sarà un successo -  MYmovies.it

Bagel: ciambelle che hanno rinunciato ai propri sogni” John Oliver

Everything Everywhere All at Once è un film strambo e multiforme: non si può ascrivere ad un solo genere, genera sentimenti di fastidio profondi, ma anche un calore molto forte quando parla di rapporti. Evelyn Quad (Michelle Yeoh) è una immigrata cinese che gestisce assieme al marito Waymond (un ritrovato Ke Huy Wang), una lavanderia a gettoni: non sopporta il marito, mal tollera il fatto che la figlia Joy (Stephanie Hsu) sia lesbica e pensava di essere destinata ad una vita migliore. L’arrivo del padre Gong Gong (James Hong) e la richiesta di un prestito per ampliare l’attività, la agitano fortemente.


Presentato in piccoli festival indie e diventato un caso negli Stati Uniti, tanto da essere candidato a 11 premi Oscar, il film inizialmente è molto fastidioso e concitato; la sensazione di frenesia e inadeguatezza ci traghetterà in una favola piene di riferimenti al fantasy, al cinema e alla filosofia. La forza del film è anche il grande livello di citazioni a tipi di cinema diversi: in questo modo il film ha una chiave molto internazionale e multiculturale, ma la base sono i film di kung fu, i combattimenti acrobatici sono ben riusciti e sono una delle parti migliori del film. Per interfacciarsi a questo film è necessario avere la mente aperta e cercare di coglierne gli aspetti più magici, ma spesso la gigioneria prende il sopravento (vedi metaversi improbabili, dildi e premi che sembrano anal plug) a discapito del film stesso.

La ricchezza dell’immagine si scontra con la semplicità e l’universalità del messaggio: l’amore e le relazioni sono le uniche cose importanti che ci permettono di elevarci. Nel film si respira una certa eversione, tipo lo slogan sessantottino “fantasia al potere”, tuttavia l’abbondanza di immagini e di concetti fa sentire lo spettatore sperduto in senso non buono.

Dalla profondità dei concetti filosofici tirati in ballo – la natura infinitesimale dell’uomo, la necessità delle scelte, la scissione dell’io e l’impossibilità per gli esseri umani di non avvicinarsi senza ferirsi (il dilemma del porcospino di Schopenhauer) – ci si aspettava una maggiore profondità nel finale tutto basato sui valori familiari. La messa in scena risulta non idonea al messaggio finale del film (tutta questa storia del metaversi), semplicemente per dirci che la famiglia è importante e che bisogna accettarci come siamo.

Ma il film è anche molto divertente (anche grazie ai combattimenti e alle inventive folli), con un inedita Michelle Yeoh, sempre principessa guerriera, ma comica e spesso non elegante come siamo abituati a vederla nei film precedenti. Yeoh, molto importante per un certo cinema asiatico (action, wuxia e drammi in costume), ha la possibilità di interfacciarsi con un pubblico internazionale e con qualcosa di assolutamente nuovo per un’attrice. Il cast infatti è ben scelto e mischia volti nuovi come Stephanie Hsu a veterani come Jamie Lee Curtis e Ke Huy Quan.

L’aspetto più interessante è lo scontro generazionale rivisto in chiave epica. Se altri film avevano parlato di scontri generazionali, vedi Lady Bird di Greta Gerwig, sempre in una chiave abbastanza classica e parteggiando per le nuove generazioni, l’idea di una versione cattiva della figlia che però insegna alla madre l’importanza di lasciarsi andare e che nulla è importante, ha il sapore dell’incontro tra l’eroe e un saggio; in fondo il film è un vero e proprio viaggio dell’eroe verso una consapevolezza, ma pazzo e kitsch.

La sfida era fare un film fresco, nuovo, divertente, ma anche profondo e con l’idea di creare una nuova forma di cinema. La prima parte della sfida è stata vinta in quanto il film cattura lo spettatore, diverte ed è soprattutto fatto da immagini bellissime, trasuda novità, freschezza per contenuti, messa in scena e regia.

Sulla seconda parte della sfida, invece, il film potrà essere il capostipite di un genere nuovo ed inedito (comedy-fantasy-filosofica), sperando che però i prossimi abbiamo meno idee e più chiare. Il nuovo cinema fatto da giovani cineasti, come i due registi del film soprannominati i Daniels, riprende quello che abbiamo visto con Titane di Julia Ducournau o con il buonissimo film rumeno Bad Luck, Banging or Loony Porn di Radu June: registi che sono cresciuti con il cinema post-moderno e citazionista di Tarantino e Paul Thomas Anderson, dove non è possibile precludere i film ad un unico genere, prendono tutti gli aspetti di quel cinema e li portano all’estremo, creando veri e propri nuovi modi di comunicare, ma il comune denominatore di questi film (chi più, chi meno) è a che alla fine ci sembra di stare in una lavatrice per la quantità massiva di idee con cui si potrebbero fare tre film. Ma ben vengano i film dove la libertà artistica e la voglia di creare nuovi linguaggi comunicativi sono il motore. Fantasia al potere!

Il film riesce nei suoi aspetti estremi: quando è intimista (bellissima la scena delle pietre) e si investigano i rapporti famigliari, oppure nei grandi combattimenti scenici. Ma l’unione tra le due cose risulta non completamente riuscita.

Il risultato è un film scisso dove l’ambizione e la messa in scena è da 4 stelle, ma la chiarezza, l’attenzione dello spettatore e la reperibilità del messaggio è da 2 stelle. Quindi, tre stelle d’incoraggiamento!

Voto: 3/4

Giulia Pugliese

The Quiet Girl di Colm Bairéad, la recensione

THE QUIET GIRL (Colm Bairéad) • Sale della Comunità

L’accostamento di The Quiet Girl, di Colm Bairéad, con la “nostra” Arminuta di Giuseppe Bonito (dal romanzo di Donatella di Pietrantonio) è un assist talmente ovvio e immediato che a parte una breve riflessione (lieve come un battito di ali), non intendiamo dilungarci troppo su analogie o divergenze. Tra i vari elementi, ce n’è uno interessante e iconico degno di nota, in entrambi i film: “l’abito buono”, indossato a inizio e fine pellicola, un simulacro che si trasforma in marca, un alter ego, che per la proprietà transitiva, diventa specchio della condizione e dell’animo delle due protagoniste. Entrambe, in un percorso parallelo e contrario, si trovano a fare i conti con il mondo ingiusto, e imperfetto dei grandi e si muovono, con intermittente equilibrio, tra solitudine e trascuratezza , accudimento ed emancipazione in un mondo di adulti inadeguati, o non titolati, se non per breve tempo, ad accudirle. Ma ”l’abito buono” diventa anche metafora di un luogo che viene abbandonato, quello dell’infanzia, attraverso un’evoluzione complessa e dolorosa che inscrive la storia delle due bambine nel dramma di formazione.

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2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick, un film che è un oltre film

2001: Odissea nello spazio - Film (1968) - MYmovies.it

“Siete liberi di speculare sul significato filosofico e allegorico di 2001: Odissea nello spazio. Io ho cercato di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo, direttamente nell’inconscio.”

Così parlava (non Zarathustra) Stanley Kubrick del suo film. Perché parliamo, ci interroghiamo, guardiamo e ci stupiamo ancora così tanto di 2001: Odissea nello spazio, è un film del 1968? Un film che sembra non invecchiare mai e dove troviamo sempre nuovi spunti di riflessione.

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Tár di Todd Field, la recensione del film con Cate Blanchett

Tàr: Se il predatore sessuale di turno è Cate Blanchett | Wired Italia

“Non conosco nessuno che valga più di me” Gustav Malher

Il film racconta la parabola discendente del direttore di orchestra e compositrice Lydia Tár (Cate Blanchett), donna di successo, piena di sé e capace di reale crudeltà (vedi la scena con la compagna di classe della figlia). Sotto la sua immagine fredda, perfetta e dalla disciplina ferrea si nasconde un personaggio sfaccettato ma imprigionato nella sua convinzione di essere la migliore, incapace di provare sentimenti reali (tranne per la figlia Petra, unico aspetto che la rende umana) e di lasciarsi andare.

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