Anche sforzandosi, è impresa ardua trovare qualcosa di buono da dire su questo film.
Per nulla entusiasmante, sconclusionato e rozzo come pochi, Napoleon è la prova provata che l’ormai ottantacinquenne Ridley Scott (che ha inanellato un paio di titoli divenuti presto e giustamente cult, ma che grande cineasta, in tutta franchezza, non è mai stato) è divenuto manifestamente la copia della copia di sé stesso.
Anzitutto, questo è un film vetusto, che fa sfoggio del digitale e di (spesso pessimi) effetti ultra-moderni ma che è nato vecchio se non già morto; è difatti più che legittimo domandarsi, guardandolo, in che modo questa nuova, esangue e letargica versione delle imprese del condottiero illustre dialogherebbe col presente, e chi mai potrebbe interessarsi, oggi, ad un’operazione di questo tipo.
Il 2018fu l’anno della svolta per Luca Guadagnino: quello in cui l’ormai celebre regista girò due film che più dissimili – e importanti, in primis per sé stesso – non potrebbero essere: nella primavera, in quel di Crema, Call Me by Your Name; in autunno, a Varese e poi a Berlino, Suspiria: un film passato in sordina (al di là degli sfolgorii festivalieri) ma che era (ed è) un bellissimo poliedro: una matrioska in sei atti e un epilogo che mette da parte i colori psichedelici del gioiello cui s’ispira per concentrarsi su ciò che viene taciuto.
Verrebbe da chiedersi: ma coloro che idolatrano la bieca pornografia del dolore che è Vortex di Gaspar Noé, o – peggio – il The Whale di Darren Aronofsky, avranno mai visto Sussurri e grida del maestro Ingmar Bergman? Un film che potrebbe aver girato Dio, se Dio esistesse o fosse esistito (o forse Dio era Ingmar Bergman, semplicemente: avrebbe molto più senso), oltre che la prova concreta e tangibile che ogni grande cineasta fa un unico film per tutta la vita con qualche sottile variazione sul tema: un concetto che allo svedese si applica millimetricamente: dal Posto delle fragole a questo, dal Flauto magico a Luci d’inverno, da Sinfonia d’autunno a Fanny & Alexander, il bisogno e il senso profondo dell’amore e dell’affetto umano, del calore e della vicinanza prima di ogni cosa e prima ancora di un dialogo con un dio assente ma opprimente, è sempre stato il suo comune denominatore: e questo, si badi bene (sembrerà paradossale, ma è così), è un film medicatore: distrugge, ma purifica.
Che possiamo dire, di Martin Scorsese? Tanto per cominciare, come ricordato giorni fa via social dall’illustre collega che non necessita d’introduzioni Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, semplicemente, è il più grande regista vivente. E già qui, potrebbe chiudersi la questione. Ma sarebbe ingiusto, perché il da poco ottantenne genio italoamericano, a differenza della stragrande maggioranza dei colleghi che s’affaccia non di rado malamente alle porte della terza età (almeno per quanto concerne la loro arte), riesce puntualmente in quel miracolo elettrizzante che accomuna invero una quantità estremamente sparuta di filmmakers: a superarsi. A far sì che noi, spettatori d’ogni latitudine, possiamo immancabilmente confidare che il film migliore sia quello che deve ancora venire.
Chi scrive ha un rapporto complicato con il cinema di Christopher Nolan, regista capace di alternare film belli o notevolissimi (su tutti: The Prestige, la trilogia del Cavaliere Oscuro e anche Dunkirk, con un po’ di generosità), ad altri concettosi, mediocri o finanche inguardabili come Inception o Tenet. O, in misura meno grave, Interstellar, titolo che poteva fino a questo momento considerarsi, con una certa evidenza, il suo lavoro più personale, più viscerale, più “suo” (che ovviamente non vuol dire il migliore: tutt’altro): quello più autoriale, che vorrebbe essere più sincero e che dovrebbe toglierci ogni dubbio, qualora ve ne fossero, su chi Nolan è, su ciò in cui Nolan crede, su cosa è per Nolan il cinema e su quali sono il suo sguardo (sul cinema, sull’uomo, sul mondo), la sua poetica, la sua weltanschauung.
Se si dovesse stilare un elenco di tutto ciò che non funziona nell’usurato genere del cinecomic, questo grandissimo guazzabuglio kitsch che è The Flash potrebbe tranquillamente incapsulare tutto. Il fan service, cioè l’accontentare ad ogni costo i numerosissimi seguaci allevati a strizzatine d’occhio somministrandogli esattamente quello che vogliono (esplosioni, combattimenti sfibranti e sciapi, scazzottate gommose, camei, inani autocitazioni, umorismo infantile, altri camei), ormai è chiaro (come se non fosse ovvio alla base!), è la morte del cinema. E non è neanche questione di bello o brutto, ma del fatto che si è ormai giunti ad un punto di saturazione e scipitezza tale da non saper più nemmeno cosa scrivere (ma ci proveremo comunque).
Ari Aster è un regista che si è fatto notare, facendo il botto, con un horror assai sopravvalutato che partiva benino per poi schiantarsi miseramente: quell’Hereditary rigorosamente targato A24 (sinonimo di cinema lucido, stirato, patinato e fintamente autoriale, e di scelte furbissime congegnate per solleticare il palato e l’immaginazione del fruitore più occasionale e sprovveduto, tralasciando qualche lodevole eccezione come i bellissimi The Lighthouse, First Reformed, Pearl, Diamanti grezzi…) che già era un forte indicatore, se non una vera e propria dichiarazione d’intenti, dell’abissale (e ridicola) pretenziosità connaturata alla poetica – chiamiamola così – di questo giovane filmmaker: un parabola surreal-orrorifica e (naturalmente) ultra-citazionista come ce ne sono tante ammantata però di quell’aura solenne di cinema intimista e rigorosamente dilatato (perché il genere, ricordiamolo sempre, va “nobilitato”: non è accettabile così com’è) che funziona, per l’appunto, per il gusto non particolarmente sofisticato di un pubblico mainstream, ma che non può che far alzare il sopracciglio dello spettatore più allenato e abituato a masticare cinema autentico come quello di Roeg, Kobayashi, Kubrick (perdonali, ché non sanno quello che fanno), Bergman, Polanski, Russell, Żuławski (ma pure dello stesso Rob Zombie dei tempi d’oro, suvvia!) e di tutta quella serie di nomi abusati ed eccessivamente altisonanti da cui Aster attinge costantemente a piene mani (non che ci sia nulla di male, purché lo si sappia fare) credendosi lì, al loro livello, di diritto (è ormai noto che la superbia di quest’uomo non conosce confini, ma è senz’altro in buona compagnia, nel panorama cinematografico attuale), ignorando completamente le coordinate del contegno e del buon senso, e dimenticandosi che Scorsese (il quale si professa fan di Aster: cosa non si deve fare per tenere vivo il cinema…), giusto per dirne uno, è approdato alle tre ore e mezza di The Irishman dopo cinquant’anni di onorato servizio (ma non è questo, o perlomeno non soltanto, il problema nodale: ma ci arriveremo).
Il 2022 volge al termine e non possiamo che chiuderlo con l’immancabile classifica dei migliori film. Ecco a voi la Top 10 2022, valevole per i titoli usciti nell’anno solare in sala o in piattaforma in Italia. A stravincere è The Fabelmans, viaggio autobiografico ed emozionante di Steven Spielberg, che batte una rosa di titoli decisamente interessanti. Non vi resta che scoprire l’intera classifica, insieme alle Top 10 di tutti i redattori che hanno partecipato. Buon anno nuovo!
Lo diciamo subito: Glass Onionè una delusione. Forse non brutto, ma un enorme passo indietro rispetto a quel gioiellino d’ingegno, grazia e prodigiosa leggerezza che era Knives Out, primo tassello delle avventure del virtuoso detective Benoit Blanc impersonato da un garrulo e rinato Daniel Craig (dire che ne aveva fin sopra i capelli d’interpretare James Bond sarebbe un vellutato eufemismo: fate voi un confronto), nonché una delle ultime, grandi esperienze cinematografiche collettive prima dell’agghiacciante parentesi della pandemia di Covid-19.
Blonde, quarto lungometraggio lungamente covato di Andrew Dominik – che già mostrò tutto il suo ribollente e sconfinato talento con quella pellicola mitica e sfolgorante che è L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (ma non solo: riguardatevi Chopper), e che alcuni ridussero, e continuano stoltamente a ridurre, a sterile e compiaciuto manierismo autoriale d’alta classe – trionfa nell’apparentemente impossibile impresa che mai nessuno è riuscito a compiere: restituirci l’abissale, opaca e distruttiva complessità di Norma Jeane Mortenson. Tradotto: Marilyn Monroe.
Ci mancava, l’Elvis fracassone di Baz Luhrmann, l’ennesima baracconata senza introspezione tutta stile (comunque brutto) e (molta) poca sostanza. Luhrmann, si sa, è un autore, e su questo non ci piove: la paternità dei suoi lavori sarebbe distinguibile in due secondi netti anche dall’occhio meno esperto: e questo Elvis, sia come scelte visive che come pacing del racconto (similissimo al precedente, lievemente superiore Grande Gatsby), si confà perfettamente al volgare e delirante stile barocco pastrocchio cui l’australiano ci ha tristemente abituati da lungo tempo a questa parte (a partire da quel repellente scempio farneticante e screanzato che è Romeo + Juliet, comunque più coraggioso, nella radicalità demente delle sue scelte, dei suoi titoli più moderni).
Andiamo con ordine: il primo Top Gun, cult imperituro e fenomeno di costume di un’intera generazione, era un colossale e demenziale videoclip ultra-patinato e impregnato di retorica bellicista testosteronico-americanoide e di tremenda e pericolosa ideologia reaganiana reo d’aver illuminato la via, a mo’ di sadico e perverso rabdomante, per il (peggior) cinema d’azione a venire, mutato oggi solo all’apparenza nella forma e negli sviluppi (si vedano gli infiniti prodotti fast food targati Marvel Studios, tutti lustrini e zero sostanza, ma con canovacci – chiamiamoli così – similari): indi, già solo l’idea d’un rinverdimento dei rancidi fasti passati (quasi quarant’anni dopo, è bene ricordarlo), provocava, per usare un eufemismo, sudori freddi e vertigini hitchcockiane.
Che qualunque cosa Matt Reeves tocchi diventi magicamente oro, non è certo chissà quale rivelazione: che sia la controversa rielaborazione del kaijū eiga, il fantasmatico rifacimento di un caposaldo dell’horror moderno come Lasciami entrare o la rivisitazione solenne, ieratica e meditabonda dell’al tempo logoro e strematissimo franchise del Pianeta delle Scimmie, il nostro ha saputo infondere alla sua proteiforme e sorprendente opera – con lo sguardo di chi del cinema conosce perfettamente i tempi, il linguaggio, le sfumature e i meccanismi più segreti – nuova linfa, profondità, emozione e un crepuscolare afflato fordiano (specialmente nel capitolo conclusivo della saga delle Scimmie) che lasciava presagire solo il meglio per questo tanto agognato e più volte posticipato – causa Covid e altre amenità – reboot dell’Uomo Pipistrello: materiale che, sia detto, dopo la grandiosa trilogia dell’altalenante Nolan e la nefanda parentesi snyderiana con Ben Affleck sulla quale è meglio sorvolare (pur con la bella eccezione di quell’anomalo e statuario oggetto filmico che è Zack Snyder’s Justice League), era, se non difficile rinverdire, quantomeno di complicata maneggiabilità.
Premessa doverosa: chi scrive reputa Paul Thomas Anderson uno dei più grandi registi viventi. Tutti i suoi film, a parte due eccezioni spiacevolmente considerevoli di cui diremo a breve, oscillano fra il bello e il capolavoro, con punte massime e cristalline toccate dalla mirabile triade composta da Il petroliere, The Master e Il filo nascosto.