Remake Disney in live action: perché voler “dare vita” a opere immortali?

 

Aveva iniziato Tim Burton, nel 2010, con una sua personale rivisitazione di Alice in Wonderland. Siamo nel 2017 e Bill Condon – con Stephen Chbosky alla sceneggiatura, da (non) dimenticare – presenta in sala La Bella e la Bestia. 7 anni. 7 anni in cui ci si è divertiti a riproporre i capolavori d’animazione Disney in versione live action e, ad oggi, non se ne è ancora capita totalmente la necessità, alla luce della qualità delle opere in causa, anche se, in realtà, è un discorso che si potrebbe fare ad ampio raggio, con il cinema in generale, vista la quantità di reboot presenti o in produzione. Certo, ci sono eccezioni, come la Cenerentola di Kenneth Branagh, cui il regista ha dato un taglio personale proponendo una favola classica e godibile, senza snaturare personaggi e riuscendo anche a dar vita a sequenze di discreta fattura (la fuga allo scoccare della mezzanotte, ad esempio). Non va inoltre dimenticato Jon Favreau, che ha raggiunto l’apice negli adattamenti, con una versione visivamente incantevole e coinvolgente del Libro della Giungla, premiato anche agli ultimi Oscar.

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La favola del cinema italiano: ci meritiamo Moretti, Sorrentino e Garrone?

   

Sarà forse una questione di nome. Sarà una questione di diverso appeal. Ma i fatti parlano di un evidente gioia e tripudio per Rossi-Dovizioso-Iannone, che «con la loro impresa tengono alto il nome dell’Italia, orgoglio nazionale almeno per un giorno». Eppure, se a questi nomi si sostituiscono Moretti-Sorrentino-Garrone, quasi cala il silenzio. O peggio, i detrattori escono allo scoperto, come sempre, inopportuni. Non che non si debba andare fieri di un ragazzo che a 36 anni riesce ancora a fare mirabolanti imprese sulle due ruote, ma il trio di registi sono stati da poco annunciati in concorso al prossimo Festival di Cannes, non certo una rassegna di quartiere. Eppure questo non basta. Inoltre, era da 20 anni che a Cannes non venivano presentati 3 film italiani in concorso, ma anche questo, evidentemente, non interessa.

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Cosa sanno i Festival che noi non sappiamo?

 Nel corso dello splendido documentario From Caligari to Hitler, tratto dal libro di Siegfried Kracauer, la voce off ci pone la medesima domanda per almeno tre volte: cosa sa il cinema che noi non sappiamo? Nel 2014 esiste qualcosa che il medium cinematografico può ancora insegnarci? Traslando il quesito, ci pare lecito allargare il discorso ai Festival, che nascono spesso dal basso con budget ridottissimi e dei quali a volte si fatica a comprendere la funzione.

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La morte (della critica) corre sul fiume (dei social)

 I social network, questi sconosciuti. La loro venuta nel mondo cinefilo ha contribuito a oscurare in poco tempo il fermento sano e stimolante dei blog, dove lo scambio e la polemica si alimentavano incessantemente, dove tra articoli e commenti si formavano le nuove leve della cinecritica. Con l’impero di Facebook i blogger, pigri come tutti noi umani sappiamo essere non appena ne abbiamo l’occasione, hanno abbandonato il terreno fertile dei propri piccoli feudi per trasferire il dialogo, e la battaglia, sul social più famoso del mondo.
Cinefili di ogni estrazione e provenienza si sfidano e discutono ogni giorno dal basso dei loro profili, multimedializzando le loro conversazioni con immagini, trailer, articoli. Un universo stimolante e sulla carta affascinante. Sulla carta, dico, perché invece sui cristalli liquidi dello schermo la faccenda è molto più piatta e molto meno articolata.

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Esseri animati

 Oggi più che mai, con il grande impiego del digitale, l’invasione della prospettiva videoludica al cinema, l’impiego della terza dimensione, il fotorealismo e chi più ne ha più ne metta, ha senso interrogarsi sul cinema d’animazione .

Innanzitutto, cosa intendiamo con questa nozione?

Cominciamo dal principio. Per animazione si intende un qualsiasi movimento di un qualsiasi oggetto visto sullo schermo che, concretamente, non sarebbe stato possibile realizzare. Il primo King Kong del 1933 così come l’ultimo di Peter Jackson del 2005, sono entrambi frutto di tecniche d’animazione. Per il primo caso parliamo di stop motion, per il secondo di motion capture, ma sempre di animazione si tratta. Eppure nessuno definisce quei film come film d’animazione. Non sono “cartoni animati”. Sono film girati in live action con l’aggiunta di alcuni effetti speciali. Perfetto. Ma possiamo dire lo stesso di Avatar, oppure della trilogia de ll Signore Degli Anelli, o dei recentissimi Gravity e Vita Di Pi? Sono esempi questi di pellicole in cui l’impiego delle tecniche d’animazione, supera in percentuali l’impiego del live action. Diciamo che potrebbero essere definiti come dei “cartoni animati” con l’impiego di alcuni “effetti live action”.

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Alzare l’asticella

 Sono ormai più di due anni che sono nati i-FilmsOnline ed è arrivato il momento di presentare una nuova sezione, gli “editoriali”, un appuntamento (non solo mensile) che verterà su temi d’attualità cinematografica di ogni tipo, anche a richiesta dei lettori se saranno interessati e vorranno suggerirne. Il fine è quello di coinvolgere gli appassionati e di suscitare discussioni, polemiche, interessi che vadano oltre ai commenti legati a un semplice giudizio di un film o di una classifica.
Insomma, in attesa di vostri commenti e suggerimenti, con fatica e determinazione, proveremo anche noi ad alzare l’asticella giocando a fare la rivista specializzata.

Fatta la dovuta introduzione, in attesa di contributi più specifici, in qualche modo bisogna incominciare.
Si potrebbe comodamente parlare di Nymphomaniac, anticipando (o, visto che ormai quasi tutti sono già riusciti a vederlo, posticipando) le discussioni che da sempre ruotano attorno al nome di Lars von Trier e che non mancheranno di certo in seno al suo prossimo lavoro.
Forse però è più interessante guardarsi indietro, poiché questo (tentativo di) editoriale nasce al termine di uno dei mesi più scarsi, cinematograficamente parlando, degli ultimi anni.
In mezzo ai tanti titoli carenti usciti in marzo (salvo per Ida e pochissimi altri), a svettare è stato L’impostore di Bart Layton, presentato al Sundance 2012 e finalmente arrivato nelle sale italiane.
Un documentario? Sì, nell’accezione più ampia e (post-post) moderna possibile.
Layton è partito innanzitutto da una storia (vera) particolarmente affascinante e ormai del tutto nota. Ha intervistato i protagonisti (doc?) e ha ricostruito (fiction?) le parole (reali o fittizie?) dell’impostore con degli attori.
Tra verità e menzogna (già, proprio come il sottotitolo di F come falso di Orson Welles), il regista ha costruito uno dei thriller più angoscianti degli ultimi anni, capace di tenere incollati allo schermo fino al termine dei titoli di coda.

È certo che vedendo L’impostore si assiste a una struttura drammaturgica che, se non nuova, è quantomeno originale e coinvolgente: non è però un caso isolato.

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