Diamanti grezzi di Josh e Benny Safdie, la recensione

Su Netflix

A cura di Francesco Pozzo

Un grande film dovrebbe possedere almeno tre requisiti fondamentali: investigare l’esperienza umana, farci identificare con gli individui che mette in scena (anche se con noi, quantomeno all’apparenza, hanno poco da spartire) e restituirci l’anima e la personalità di chi sta dietro la macchina da presa: ciò intendendo non attraverso sterili virtuosismi à la Sam Mendes, ma tramite la precisione e l’essenzialità dello sguardo.

Diamanti grezzi (Uncut Gems), secondo film dei fratelli Safdie, è un’opera che incapsula meravigliosamente tutte e tre le componenti.

Perché in questo Carlito’s Way trucido e psichedelico cui dona l’acqua della vita un immenso Adam Sandler mai così tragico e sgargiantemente sublime, è cristallizzata tutta l’inesprimibile contraddittorietà delle più o meno deliranti battaglie che noi tutti combattiamo quotidianamente, delle debolezze e delle mancanze, del furore e della malinconia. In una parola: dell’inadeguatezza.

E quanta straziante umanità e dolcezza, quanta disperata e toccante voglia di fare il salto per emergere dal grigiore svilente della giornaliera mediocrità, quanta encomiabile bravura nel creare un ritmo allucinato e vorticoso in cui tutto combacia con precisione chirurgica alimentandosi e compenetrandosi vicendevolmente e ogni scelta s’intreccia e si sovrappone in un flusso febbrile e ininterrotto di musica, gesti, suoni, parole, scorrere impetuoso e contagiante del denaro e del tempo.

I due fratelli, che non sbagliano un colpo e che sono una stupefacente e prevedibile conferma, maneggiano la materia narrativa come maestri navigati, scelgono volti inediti e perfetti (un autentico colpo di genio trasfigurare in questa maniera il personaggio reale e bigger than life di Kevin Garnett), si destreggiano abilmente fra scarti di ritmo e di stile, omaggi e citazioni, virate di tono e lampi di fantasia: prorompenti alfieri di un cinema lisergico e vorticoso, libero e selvaggio, barocco e rutilante, che ti prende e non ti lascia più, ti scuote e ti confonde, ti ammalia, ti stordisce e t’induce a riflettere su te stesso e su ciò che guardi lasciandoti addosso la sgradevole sensazione di una gelida coperta di fango regalandoti al tempo stesso un inebriante e disperato sorriso; un cinema sovreccitato e genuinamente anarchico che ci sbatte in faccia tutto il caos e la violenza soffocante del mondo ma anche la tenerezza e la tristezza innata di un goffo individuo perennemente ai margini che ricorda a tratti la drogata frenesia dell’Emile Hirsch di Killer Joe, uno dei tanti sgraziati e amabili perdenti ciclicamente sospinti verso il basso da miserie e difetti che si ripercuotono fatalmente su ognuno di noi, e con i quali è impossibile non provare ad identificarsi (se non altro per semplice compassione ed umano sentire).

Un personaggio, questo Howard, in grado di riconsegnarci una confusione che è parte integrante e inestricabile dell’esistenza: un inguaribile, maldestro e caracollante loser col vizio e la foga delle scommesse costantemente accompagnato da un tessuto sonoro che ne segue ed esalta le tragicomiche gesta nell’estatico e chimerico inseguimento della scommessa della vita: quella che potrebbe cambiare tutto o farlo sprofondare ancora più giù, nella burella della perdizione, in un marasma stroboscopico capace di calarci nel suo mondo slabbrato e nella caoticità della sua psiche cogliendo perfettamente l’anima e la poesia sporca di una New York lugubre e kitsch che da anni non si vedeva così vera e pulsante nel suo fuligginoso e infettante squallore.

Perché quegli scatti nevrotici, quelle corse contro il tempo tanto frenetiche quanto vane, gli amori e i sentimenti sbilenchi, le frustrazioni e il disagio penetrante che arduamente riusciamo a comunicare a chi ci sta intorno sono cose che ci toccano da vicino, e che sono parte integrante del nostro vissuto di spettatori e di esseri umani: per questo ci appassioniamo e parteggiamo con la vitalità di questo viscido omuncolo umano, troppo umano che pecca improvvidamente di ὕβϱις, e per questo, fino al termine della corsa, vorremmo istintivamente allontanarlo dal pericolo imminente salvandolo dalla catastrofe, dall’ineludibile resa dei conti di uno di quei finali crudeli e sferzanti che non si vedevano da molto tempo, e che t’incollano alla poltrona mozzandoti il fiato: di quelli a cui assisti stringendo i pugni col cuore in gola e facendo letteralmente il tifo, anche se dentro di te già sai come andrà a finire.

I Safdie, come sottolinea eloquentemente il padre spirituale Scorsese, sono dei banditi. Banditi dello sguardo e del linguaggio filmico: due ragazzacci estrosi, brillanti e ardimentosi che hanno assimilato e immagazzinato il meglio del cinema che li ha formati riplasmandolo sapientemente in un piccolo capolavoro di grazia e di tensione che pare uscito da un’epoca passata ma senza mai risultare sterilmente manierista o fine a sé stesso (Dio benedica la lucente consistenza della pellicola): un gioiello multicolore che riporta alla mente l’energia elettrica e rinfrescante di Mean Streets ma anche gli splendidi funambolismi del miglior De Palma (occhio alla meravigliosa sequenza notturna memore di Body Double), l’intima e toccante universalità del cinema di Cassavetes e la poetica del degrado di Harmony Korine.

Perché l’opale, che racchiude il segreto dell’universo e che viene dalla terra, è parte di Howard e del nostro percorso di individui, delle sconfitte e dei baluginanti fulgori di gioia che costellano le nostre vite e che si dissolvono nel conclusivo movimento di macchina che si ricollega all’infinità del cosmo scavando dentro Howard e dentro di noi, nella sua e nella nostra essenza: perché polvere siamo e polvere ritorneremo.

Voto: 3½/4