FREAKS di Tod Browning (1932)

Il film della settimana: Freaks (1932) - Word to Working

“They didn’t ask to be brought into the world, but into the world they came”.

Mostrare l’immostrabile, spettacolarizzare l’inguardabile, costringere lo spettatore a fare i conti con un’umanità altra, talmente disprezzata e disprezzabile da non sembrare nemmeno parte della stessa categoria di viventi. E farlo con una grazia inimitabile, entrando in punta di piedi nei carrozzoni fatiscenti dove si annida questa strana tribù para-umana, guardando a questi figli sfortunati, o a quel che resta di loro, con l’occhio commosso e impermeabile al reale tipico della madre dello scarafaggio.

È l’impresa compiuta da Tod Browning, già autore di numerose pellicole mute che sfioravano o abbracciavano il tema “fenomeni da baraccone” (come il dimenticato e splendido Lo sconosciuto) con Freaks, che si affaccia al 1932 pieno di ambizioni destinate naturalmente ad essere frustrate. Incompreso, maltrattato, tacciato di turpitudine ed immoralità, questo capolavoro della settima arte viene rinnegato insieme al suo autore, recuperato come cult-movie dai fanatici dell’horror (peraltro incomprensibilmente) solo trent’anni dopo e a tutt’oggi non ancora del tutto sdoganato.

 

Eppure non si tratta che di una favola vecchio stile, dove i buoni trionfano sui malvagi, l’armonia e la fratellanza hanno la meglio, l’amore vince su tutto e l’happy ending è assicurato. Il problema è uno solo: i cattivi di questo film possono vantare le forme eleganti e raffinate della bella cavallerizza Cleopatra e i muscoli guizzanti del suo amante, l’uomo forzuto Hercules. Gli eroi, invece, sono rappresentati da un gruppo piuttosto singolare: ci sono nani, microcefali, donne barbute, uomini senza gambe, donne senza braccia, ragazze-uccello e uomini torso. Tutti autentici al cento per cento, scovati da Browning tra i tendoni delle fiere della provincia Americana più arretrata, dove il Freak Show, massimo divertimento dell’Età Vittoriana, era ancora in voga. Come non sentirsi oltraggiati dalla presenza di un cast composto quasi interamente da autentici mostri, senza nessun trucco filmico ad alterarne le già surreali fattezze, in una situazione in cui persino i tecnici sul set chiedevano di poter pranzare in una sala diversa per non sentirsi disgustati da quella straordinaria compagine?

La risposta la offre Browning e sta, come spesso accade, nel lasciar cadere il pregiudizio e nel sapere guardare oltre: oltre il ribrezzo, oltre la pietà, oltre la compassione che la vista di membra mutilate e deformità può suscitare e nel riuscire ad accogliere la natura, profondamente e dolorosamente umana, che risiede in questi corpi scempiati dal destino.

I freaks di Browning formano infatti uno degli esempi più solidi ed edificanti di unione e fratellanza: stretti l’uno all’altra, sanno di appartenere a una comunità speciale con diritti e doveri particolari, all’esterno della quale nessuno, tranne poche, singolari eccezioni (il clown Phroso e la sua compagna) è disposto ad ascoltarli ed aiutarli. In altre parole, a realizzare quanto il nano Hans afferma in un momento straziante: “I’m a man with the same feelings they have”.

Eppure, a voler ben guardare, i freaks sono molto più speciali degli esseri umani che sguazzano nel fango della loro normalità, lupi avidi pronti a sbranarsi il fianco: i fenomeni da baraccone sono invece capaci di amore reciproco, sincero e disinteressato, hanno un solido sistema di valori e uno spiccato senso della comunità: “offend one and you offend them all” dice l’imbonitore all’inizio del film, “offendine uno e li offendi tutti”.

Come bambini, i freaks all’inizio sono innocenti e in buona fede: nell’accogliere Cleopatra tra loro, durante la celeberrima scena del banchetto (“gobble gobble, one of us”), pensano di renderle un onore e di ammetterla all’interno di una collettività calorosa, felice e protetta, perciò la reazione disgustata e sarcastica della donna suona come uno schiaffo in faccia allo spettatore, fino ad allora commosso dal candore dei freaks: impossibile non schierarsi dalla loro parte. E il violento processo di enfreakment imposto a Cleopatra, trasformata da donna bellissima e imponente in “donna gallina” (nella versione originale “human duck”), mostro senza gambe dal volto sfigurato, oltre a rappresentare una rivalsa nei confronti di Hans, è un contrappasso quasi logico: la donna ha rifiutato l’onore che le era stato concesso di far parte della famiglia, ora è costretta ad essere una di loro. Il regista riesce dunque a realizzare un intento tanto nobile quanto apparentemente impossibile: regalare un’aura di bellezza incantata a un gruppo di “mostri”, come avviene nella scena in cui Madame Tetrallini accompagna i suoi “piccoli” a giocare nel bosco. Circondata dai pinheads, da Johnny Eck, l’uomo senza gambe, dai nani e dall’uomo scheletro, la donna viene attaccata dai proprietari terrieri, e mentre abbraccia protettivamente le sue creature, facendo notare che si tratta solo di “bambini”, le viene risposto seccamente:

“Children? They’re monsters!”

Quasi a sottolineare che solo chi viene ammesso a far parte dell’universo parallelo dei freaks è in grado di esserne intenerito: a questo punto lo spettatore viene invitato ad unirsi alla rumorosa tavolata, escludendo la maggior parte della gente dalla visione ottusa e limitata, incapace di vedere la magia innocente evocata dai “bambini” e incapace di essere “uno di loro”.