“Il cinema americano in Italia”: intervista all’autore Federico Di Chio
“Un film americano innanzitutto è sempre un film. Cioè non annoia […]. Volgari, violenti, convenzionali, senza verosomiglianza, senza finezze psicologiche e fotografiche. Ma fatti fatti fatti. Un bacio e una rivoltellata. Una preghiera e un inseguimento […]. Cullati dal ritmo rapido, incessante e perfetto dei tagli di visione, ci abbandoniamo anche noi alla facile inquietudine della trama.” Così Mario Soldati scriveva nel 1935 in America, primo amore. È forse cambiato l’impatto del cinema americano sul nostro immaginario di spettatori cinefili?
L’abbiamo chiesto a Federico Di Chio, direttore del Marketing strategico delle reti Mediaset e professore presso l’Università Cattolica di Milano e l’Università di Bologna. Autore di libri come Analisi del film, insieme a Francesco Casetti, ma anche L’illusione difficile e American storytelling che si pongono quasi come una premessa a questa grande storia del cinema americano in Italia. Il cinema americano in Italia (Vita e Pensiero, 2021) ripercorre un periodo che va dalle origini della diffusione del cinematografo fino all’inizio della seconda guerra mondiale. È solo la prima parte di uno studio nel quale tutto si tiene: la storia politica, i film, i divi, la fascinazione del pubblico per questa nuovo accesso sulla modernità.
Che tipo di libro è questo? Un saggio accademico ma anche un lavoro appassionato? Una storia economico-istituzionale, uno studio dell’impatto sociale del cinema americano in Italia; l’analisi di grandi film. È un punto di arrivo dopo tante sue pagine dedicate a questo tema?
È difficile per me avere uno sguardo retrospettivo sui miei lavori, ma è vero che tento sempre di tenere insieme cose diverse: elementi testuali e stilistici; uno sguardo alle dinamiche sociali legate al cinema e ultima, ma non meno importante, la storia industriale e politica. Questo tipo di tentativo metodologico si ritrova più nella storiografia anglosassone che in quella italiana. Qui, in particolare, metto al centro l’elemento industriale perché la mia esperienza di lavoro dice che la cabina di comando di un’impresa di cinema è il luogo dove tutti questi diversi elementi studiati devono trovare un luogo di sintesi. Forse sono stato avvantaggiato nello scegliere questo metodo dalla mia esperienza lavorativa, ma la scelta di strutturare il libro in questo modo è più legata al fatto di essere un lettore di storie del cinema e mi piaceva provare a definire questo lavoro secondo un diverso e più ricco punto di osservazione e di studio.
Come convivono nel suo libro la macrostoria e le microstorie dei tanti personaggi citati?
Il mio approccio è stato rischioso. La mia tendenza naturale è per la macrostoria: volevo approfondire dinamiche di fondo sul lungo periodo. Il lavoro sui dati lo dimostra. Gli archivi però sono fatti di storie di persone, alcune famose, altre meno, alcune emblematiche, altre meno interessanti. Non le tratto tutte con lo stesso peso. Ad esempio quella di Mario Luporini è una storia interessante, fatta di conflitti, anche personali. Le persone fanno la storia, non solo le istituzioni. E tutto è guidato da interessi molteplici. Ad esempio, non esiste, nel libro, la definizione di una posizione monolitica della classe dirigente fascista nei riguardi del cinema americano. Le imprese sono fatte da uomini e nell’economia della scrittura di un libro questi fatti singoli aiutano il lettore a entrare nel libro.
Stefano Pittaluga, in questa storia, continua a rimanere un mito?
Stefano Pittaluga rimane un mito perché è molto poco studiato rispetto al ruolo che ha avuto. E anche io, finito il libro, mi sono accorto che solo parzialmente sono riuscito a definire la sua importanza e il suo contributo alla circolazione del cinema americano. E aggiungo che è un peccato che rimanga un mito senza invece poterne cogliere meglio l’uomo, l’industriale.
Il suo giudizio sul cinema italiano degli anni del fascismo sembra negativo, al contrario delle tante rivalutazioni tentate negli anni da diversi studiosi.
I film dei “telefoni bianchi” sono un buon esempio di prodotto medio che il nostro cinema, nei suoi momenti di difficoltà, non ha più saputo fare. Certo non sono il prodotto più brillante ma il fatto che si rifacciano ad alcuni modelli del cinema americano rimane un merito e non voglio darne un giudizio negativo nel libro.
A suo parere, tenendo presente anche il suo precedente libro American storytelling, quale fase del cinema americano ha consolidato il mito del “film all’americana” nell’immaginario di noi italiani?
Il mito del cinema americano si forma un po’ alla volta, esplode soprattutto nel primo dopoguerra ed è radicato in particolare nel mito dell’America, legato all’esperienza degli emigrati ad esempio. Trova soprattutto la sua forza nei suoi racconti. E’ la forza dell’ultimo Spiderman che in questi giorni riporta la gente al cinema, come quella forza di Douglas Fairbanks sugli schermi di centodieci anni fa. La ricetta è sempre quella: spettacolarità, ingenuità, semplicità, efficacia nella scrittura. Non c’è la paura di immaginare eroi che salvano il mondo. Cosa impensabile per il cinema italiano.
Dunque non c’è un periodo specifico del cinema americano che ha definito il “film all’americana” ma esso è la stratificazione di un processo più complesso. In sostanza, i film americani continuano a parlare a noi che queste storie le continuiamo a volere.
Leonardo Margaglio