Il gatto Resnais, il Trans-Anubi-Express e la Grand-Mère
“In questo albergo immenso, lussuoso, barocco, lugubre. Dove corridoi senza fine succedono ad altri corridoi, silenziosi, deserti, gelidamente decorati da intarsi in legno… In sale silenziose in cui i passi di colui che le attraversa sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi, che nessun rumore di passi arriva alle sue orecchie. Come se persino le orecchie di chi cammina, ancora una volta, lungo questi corridoi, attraverso questi saloni, queste gallerie, in questo palazzo d’altri tempi, in questo albergo immenso, lussuoso, lugubre. Dove corridoi senza fine succedono ad altri corridoi…” (Alain Robbe-Grillet)
Le architetture del Valhalla dei Registi si basano su regole che noi comuni mortali non passiamo capire: infinite sono le entrate. Ad attenderti possono esserci gli immaginifici elefanti alle porte di Babilonia, come uno stilizzato Ponte dei Sospiri di cartapesta, forgiato solamente per accompagnare ai Piombi un Donald Sutherland incanutito e febbricitante. Resta il fatto che, qualche giorno fa, in un fumigante vapore da sudario, ad una di queste entrate comparve un treno che gli antichi chiamano Trans-Anubi-Express: pare che, oggi, i fuochisti siano Jean-Luis Trintingnat ed Alain Robbe Grillet (che, va detto, ha il vizio di fustigare le belle passeggere). Ma ecco che, in uno stridio di freni- e di attuti gridolini orgasmici, il Trans-Anubi-Express, si blocca: giusto per far scendere, con l’elastica, eterea, grazia degna di Nijinski (prima della pazzia), un bel gattone nero.
Un felino maestoso e gentile che noi tutti sappiamo essere il Gatto Resnais. Che succede, o succedeerà, nel Valhalla dei Registi? Spalancando portali e scostando tendaggi gli si fece incontro il vecchio amico Georges Fanju, pronto a riempirlo di coccole. Ma ogni volta che il papà di “Occhi senza volto” apriva bocca, dalle sue labbra usciva “Dans la vie faut pas s’en faire” con la voce di Maurice Chevalier! Il Gatto Resnais, socchiudendo gli occhi che avevan il coro degli abissi oceanici, cominciò a fargli le fusa. Franju però, un poco era terrorizzato: chiamò Marcel Carné, che se ne intendeva di musiche, mimi e miti, sperando in qualche lume. Carné guardò il Gatto Resnais non senza sospetto: stava per consigliare di portarlo da Henry Coster (“Se se ne intende di coniglioni, forse ci capirà pure di gatti”, fu il suo pensiero) ma- con stupore di tutti- si mise a canticchiare “Avec le temps” in una perfetta imitazione di Léo Ferré. La meraviglia generale si tramutò ben presto in cotagioso sollazzo. Persino il seriosissimo Abel Gance fece spanciare tutti tirando fuori l’ugola da passerotto del Paradiso di Edith Piaf (“J’m’en fous pas mal”, la canzone che si chiuse con un fragoroso scroscio d’applausi). Il Gatto Resnais sembrava estasiato: gettandosi beto a pancia in su, capì però di avere un certo languorino. Ma, domanda che echeggiò per tutto il Valhalla, cosa mangia il Gatto Resnais? Fortunatamente, nel suo antro alchemico, Michael Powell aveva già risolto il quesito. Sfruttando il tappeto volante prestato da Sabu, il papà di “Narciso Nero” si era precipitato nel Parnaso degli Scrittori (uno scampolo di galassia li distanzia, ma che importa agli Dei?) dove Marguerite Duras aveva già preparato un saccone di deliziosi croccantini. “Dategliene pochi per volta”, borbottò la Duras, “il Gatto Resnais è golosissimo ma debole di stomaco e dopo fa strani sogni”…