Il poeta che raccontava mostri: addio a George A. Romero
I’ve always felt that the real horror is next door to us, that the scariest monsters are our neighbors.
George A. Romero
Sono i colletti bianchi, l’ossessione capitalista, le folle che si ammassano nei centri commerciali alla ricerca compulsiva di merce, magari in saldo, i mostri dei nostri tempi. Ce l’ha insegnato George Andrew Romero, newyorkese di padre cubano, maestro dell’orrore e della riflessione sociale.
Fin dal folgorante esordio, quel La notte dei morti viventi (1968) costato solo 10.000 dollari, è chiaro che Romero ha una propria visione e intende portarla avanti, in barba a un sistema hollywoodiano che mai saprà comprenderlo e gratificarlo. È un piccolo film in bianco e nero, un lavoretto tra amici che scrive la storia del cinema raccontando la storia di un Paese, l’America, alle soglie degli anni Settanta, tra tensioni razziali e incapacità di comunicare. Non sono i morti viventi il vero problema: il pericolo si annida altrove, eppure quei claudicanti zombie diventano il simbolo di una società lobotomizzata, autistica, che va via via richiudendosi su se stessa. Il genio di Romero reinventa la figura del morto vivente, già protagonista di capolavori come Ho camminato con uno zombie (1943) di Jacques Tourneaur, eliminando l’accezione haitiana e trasformando le sue spaventose creature in simulacri di ex-viventi. Nell’incedere ottuso dei morti che ritornano c’è l’ignoranza di una nazione pronta a farsi divorare il cervello dai media e dalle ossessioni consumiste, inabile a fare fronte comune anche davanti alla minaccia collettiva: un Paese diviso e spaventato.
Con il successivo There’s Always Vanilla (1971), Romero prosegue l’indagine sulla società americana abbandonando il tema orrorifico, ma l’esito è deludente e lo stesso regista lo considererà il suo film peggiore. Meglio va con La stagione della strega (1972), sorta di Madame Bovary con elementi soprannaturali, in cui Romero conduce una toccante riflessione sulla figura femminile. Nel 1973 è la volta di La città verrà distrutta all’alba, solo parzialmente riuscito (e oggetto di un remake del 2010), in cui però già si delinea un forte elemento di critica contro il sistema paranoico-militare statunitense.
Il secondo capolavoro di Romero risale al 1977: è Martin (anche conosciuto come Vampyr), storia di un adolescente inquieto, forse vampiro, forse schizofrenico, il film che il regista ha sempre citato come suo preferito. La riflessione sulla labilità dei confini, sull’identità del vero mostro e sull’ambiguità trova una splendida cornice formale nell’alternanza di colore e bianco e nero: reale e fantastico si confondono in un’amalgama a tratti lisergica che lascia spazio solo alle domande e a nessuna risposta. Troppo poco conosciuto, Martin è, al pari del ciclo sui morti viventi, un lucidissimo manifesto della poetica romeriana che è necessario recuperare.
Con Zombi (L’alba dei morti viventi, 1978) Romero spinge ulteriormente sul pedale della critica sociale: i morti viventi che assaltano il centro commerciale siamo noi, accecati dalla sete di possedere beni materiali. Le crude immagini virate in colori accesi diventano così metafora del consumismo e la mostrificazione della società si trasforma in un’iconografia immortale. C’è Bosch, Dante, l’inferno del liberismo, il cannibalismo occidentale, in un’opera magistrale che ancora oggi rivive nell’immaginario collettivo.
Knightriders – I cavalieri (1981) e il divertissement Creepshow (1982), scritto dall’amico Stephen King, danno spazio al Romero più ironico, finendo per diventare due pellicole di culto per amatori, ma è con Il giorno degli zombi (1985) che Romero mette un primo, significativo punto alla trilogia dei morti viventi. Qui la critica anti-militare si fa violenta e per la prima volta la questione etica diventa dominante: chi siamo noi per decidere che sono gli zombie i veri cattivi? Non è forse peggio l’immorale capitano Rhodes? E chi dice che in quei cadaveri ambulanti non risieda ancora una scintilla di vita senziente, come dimostra il tenero Bub, lo zombie che re-impara a parlare?
A Monkey Shines – Esperimento nel terrore (1988), parzialmente riuscito ma interessante esito fantascientifico dove ancora una volta domina la riflessione etica, seguono pellicole dimenticabili, eppure ciascuna contenente i semi del Romero autore, da Due occhi diabolici (1990), co-diretto con l’amico di una vita Dario Argento, a La metà oscura (1993), ancora una volta tratto da Stephen King, fino al pessimo Bruiser – La vendetta non ha volto: è la stagione peggiore di Romero, che però ha in serbo un ritorno in grande stile.
Con La terra dei morti viventi del 2005 si riapre la seconda trilogia dei morti viventi, regalando al pubblico una delle riflessioni più lucide e spietate sull’America paranoica del dopo-11 settembre. Il grattacielo Fiddler’s Green, fortezza da cui i ricchi privilegiati dominano la lotta tra poveri con spregio e indifferenza, è una potente metafora del divario sociale del mondo occidentale e l’assalto alla torre ha il sapore di una rivoluzione, per cui è impossibile non fare il tifo per la squadra di antieroi protagonisti e spesso anche per gli zombie.
Dimostrando di avere bene in mente in che direzione sta andando il mondo contemporaneo, Romero firma il suo film forse più profetico e intelligente degli ultimi anni, Le cronache dei morti viventi (2007), in cui l’ossessione per la documentazione in tempo reale degli eventi diventa (come in Cloverfield, del 2008) più importante della sopravvivenza stessa.
La filmografia di Romero si chiude con Survival of the Dead – L’Isola dei sopravvissuti (2009), in cui ancora una volta domina il tema etico, lo struggimento e l’incapacità di lasciare andare i morti, l’ossessione gotica di volerli tenere egoisticamente ancorati a un mondo che li rifiuta, l’amore per il mostruoso.
Di qui in avanti, Romero non lavorerà più, nonostante la volontà, espressa più volte, di trovare fondi per le sue numerose idee. Come uno dei suoi mostri, il Maestro non è stato spesso capito dal sistema, che l’ha più volte costretto a rimontare e snaturare le proprie opere, consegnandole vergognosamente al mercato home video, negandogli una distribuzione.
Con l’acuta ironia che lo contraddistingueva, riferendosi a queste difficoltà di trovare mercato per la sua arte, Romero dichiarò: “I’m like my zombies. I won’t stay dead!”
E sicuramente non morirà nei cuori di chi ama il suo cinema, la sua poesia rivoluzionaria, la forza dirompente dei suoi zombie, sanificatori di società che si ostinano a continuare a camminare pur essendo già putrefatte.
Grazie, Maestro.