Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti, la recensione
“Con questo film io voglio ribadire la forza del cinema, l’impatto che può avere un film al cinema sulle persone” Nanni Moretti
Il sol dell’avvenire è un gioco molto raffinato di citazioni e patchwork di topics, dove Nanni Moretti riprende il suo passato, ma delinea anche una nuova strada verso il futuro della sua cinematografia. Quindi non consideratelo solo come il film felliniano di Moretti (please!).
Ci sono due cose che amiamo molto nei film di Nanni Moretti: la libertà con cui li fa e la grande coerenza stilistica che si ritrova in essi. Ne Il sol dell’avvenire ci sono entrambe queste cose, e dopo il tentativo apprezzabile di Tre piani di lavorare per la prima volta ad una sceneggiatura non originale, Moretti ritorna Moretti. In versione moderna, però, con tanto di monopattino e di appuntamenti con Netflix.
Il film, che lavora per sketch, come una specie di flusso di coscienza del protagonista, ci racconta la vita di Giovanni (Moretti stesso), regista pieno di idee, austero e dedito al suo lavoro, che a cadenza di piani quinquennali fa un film, un regista che meticolosamente controlla il set e tutti i materiali di scena.
Giovanni sta girando un film sull’entrata delle truppe sovietiche in Ungheria nel ’56, dove il protagonista Ennio (Silvio Orlando), un giornalista dell’Unità, si trova scisso tra la posizione del partito a sostegno dell’Unione Sovietica e la posizione più umana e di cuore di condannare il gesto, visto che lui stesso ha invitato un circo ungherese a Roma, e che la sua compagna Vera (Barbora Bobulova) ha raccolto le firme contro l’intervento russo in Ungheria.
Il sol dell’avvenire, come tanti film di Moretti, è un film meta-cinematografico, in questo caso c’è un vero e proprio gioco di citazioni più o meno esplicite, che piaceranno ai cinefili. Moretti entra nel post-modernismo citandosi con Palombella rossa, Caro Diario e La stanza del figlio.
È un bel regalo che fa ai suoi fan perché ci racconta qual è il cinema che gli piace e quale no. Una delle scene più riuscite è quando, trovandosi sul set di un giovane regista che sta girando il solito film iperviolento, Giovanni-Nanni esasperato blocca le riprese e dà vita a una lunga spiegazione fatta di personaggi che dibattono sul perché la scena non vada bene. Questo momento del film richiama la fila al cinema di Io e Annie e, come direbbe Woody Allen ,“ragazzi se la realtà fosse così!”.
Il set è visto come luogo di rifugio, come luogo del possibile: ce lo dimostrano anche le scene dall’alto dei set di Cinecittà dove vediamo il regista camminare e pensare. Set dove nascondersi dal vero non-sense della vita reale fatta da interviste su animali selvaggi, sabot e psicologi che passano le versioni di greco ai nipoti, perché sempre come dice Woody Allen, “persino un brutto film è meglio della vita”.
Il protagonista è fondamentalmente un uomo preparatissimo a livello professionale, ma non si accorge delle problematiche relazionali che ha con la moglie Paola (Margherita Buy), anche sua produttrice. Sia nel film che Giovanni gira, che nel Il sol dell’avvenire ci sono delle crisi di coppia, sia Giovanni che Ennio sono così presi dai loro doveri, dal lavoro, dalla lealtà al partito, da una certa austerità e correttezza da non vedere che stanno perdendo Paola e Vera. In questo senso non c’è solo il parallelo tra Nanni e Giovanni ma anche tra Giovanni ed Ennio, tanto che Paola dice preoccupata a Giovanni che rivede molto di lui nel personaggio. Uomini intransigenti con se stessi e con gli altri, persone che scelgono la carriera, il lavoro, il partito, uomini che hanno bisogno, ma non necessitano.
La crisi di Paola smuoverà tutto, è lei il vero personaggio sfaccettato del film, se è vero come viene detto che le persone cambiano solo nei film, Paola prenderà la forza di cambiare e di far aprire gli occhi a Giovanni sulla sua vita e sul suo lavoro.
Paola è un personaggio in evoluzione, risolve i problemi di Giovanni, lo accudisce, è una donna che si è sempre messa da parte per il marito: moglie, madre e produttrice. È alla scoperta di se stessa ed è il vero fulcro della liberazione finale di Giovanni. È lei il vero elemento di innovazione che mette in moto l’impensabile: Giovanni lascia il set, lascia il suo film, perché in quel film così politico, così austero non si riconosce più. La crisi personale contagia l’artista, che dall’essere sicuro su ogni aspetto e non lasciare nulla al caso, si ritrova spaesato e senza più stimoli.
C’è un altro elemento importante, che Moretti porta avanti negli anni: la critica al Partito, in questo caso al PCI. Più o meno velatamente Moretti già dai tempi di Io sono un autarchico ed Ecce Bombo criticava già una sinistra sessantottina, imbevuta di una certa ideologia “che fa cose e vede gente”, ma assolutamente incapace di crescere come individui, passando attraverso Palombella rossa, dove un candidato si oppone al suo partito cercando di dare una visione diversa, fino ad Aprile, dove esorta quello che era il Segretario del Partito, Massimo D’Alema, a dire “qualcosa di sinistra”.
Per quanto Moretti venga riconosciuto come un pezzo della sinistra italiana, non è mai stato tenero con essa. In questo film c’è una pesante critica alla posizione che il PCI prese nel 56: oggi in una società opportunistica e sempre orientata all’individualità è impossibile pensare che ai tempi chi militava nei partiti si riconoscesse in maniera totale e coerente con questi e anche le questioni personali non fossero tali, per cui il fotografo omosessuale viene ripreso per i suoi comportamenti poco opportuni.
Questo aspetto nel film è marginale, ma secondo noi è giusto sottolineare come spesso la sinistra, nascondendosi sotto un certa austerità, ha discriminato intellettuali, dirigenti e tesserati per il proprio orientamento sessuale, le scelte personali e l’opporsi ad alcune posizione del partito, l’esempio più eclatante è quello di Pier Paolo Pasolini allontanato per i fatti di Ramuscello.
Il PCI ha chiuso il suo ciclo politico ed è uscito dalla storia, vedi la lettura del copione, dove uno degli attori si stupisce che “ci fossero i comunisti in Italia”, perché non è stato in grado di capire i cambiamenti della società, di essere coraggioso e di essere un faro per i comunisti europei, ed essendo il partito comunista con più elettori in Europa poteva esserlo.
Tuttavia l’opposizione a tempi ci fu, il “Manifesto dei 101”, dove appunto 101 intellettuali simpatizzanti del PCI firmarono perché il partito prendesse posizione contro l’invasione russa, e la risposta fu una pesante demonizzazione della stampa di sinistra alla rivoluzione bianca ungherese. Ora sappiamo che la posizione giusta sarebbe stata sostenere quella rivoluzione, ma ai tempi il PCI non aveva gli strumenti e dipendeva dal partito comunista sovietico. L’umanità dovrebbe sempre prevalere sull’ideologia. Se adesso è facile tracciare una linea, ai tempi invece forse non lo era.
Se il PCI ha fallito sul piano internazionale, ha certamente portato innovazione sul piano dei diritti: dall’uguaglianza, passando per la libertà femminile fino alle scelte individuali. É giusto parlare degli errori del PCI esaminandoli però nel giusto contesto storico.
In questo aspetto il film è carente, è giusto vedere la storia del Partito come manchevole, è giusto parlare di quello che poteva essere e di un pezzo di storia che non andrebbe dimenticato, ma il PCI ha sofferto troppo le sue déblacles internazionali a fronte di quello che ha fatto per questo paese.
Alla fine Giovanni troverà il finale al suo film e sarà decisamente sconvolgente per il Giovanni che abbiamo conosciuto. Il finale del film è una botta di ottimismo, un grande tributo a Fellini, ci insegna che la fantasia ci aiuta a vivere meglio, ad essere più liberi e che il cinema può cambiare tutto. Alla fine ha ragione la protagonista del film di Giovanni: “questo non è un film politico, ma un film d’amore” per il cinema, che poi è anche l’aspetto più riuscito del film e che riesce a farci sognare.
Voto: 3/4
Giulia Pugliese