Kafka a Teheran di Ali Asgari e Alireza Khatami, la recensione

“Il Grande Fratello ti osserva” 1984 di George Orwell


Siamo abituati a pensare al male come qualcosa di eclatante, eccesivo, come un boato senza fine,
una tortura continua e un dolore che non lascia spazio a niente, ed è proprio così. Ma se invece
fosse un picchiettio, un sussurro, una goccia e qualcosa che striscia intorno a noi, che è sempre
presente?

Kafka a Teheran nasce da una tesi chiara: cosa vuol dire vivere in un regime adesso, nel
presente, dove comunque sappiamo cosa succede all’esterno, dove gli echi da altri Paesi ci
arrivano? Il film vuole farci vivere una quotidianità, vuole farci scoprire gli aspetti più assurdi, a
tratti ridicoli, vessatori, kafkiani e senza senso del regime islamico iraniano, senza però sminuire il
dolore delle persone. Il regime e chi lo perpetua sono ridicoli, il popolo e chi lo subisce non lo sono mai, per questo chi lo perpetua non merita neanche di essere visto mentre chi lo subisce non solo deve essere visto, ma sentito, investigato ed empatizzato. Il film è il tentativo riuscito di far sentire a chi non vive in Iran cosa prova il popolo iraniano.


Il film racconta 9 storie, 9 situazioni paradossali e 9 dialoghi tra i protagonisti e gli interlocutori che
rappresentano il potere e il pensiero comune, cosa è giusto, cosa no. I colloqui tra due persone a
tratti assurdi, a tratti amaramente comici, a tratti umilianti e violenti. Il film ha un escalation di
violenza, senza mai farci vedere né sangue, né armi, né botte, né grida e neanche rabbia. Sono
situazioni banali, comuni, piccole, ma scavano dentro, proprio perché così comuni sono così
dolorose e devastanti.

Il cinema iraniano che negli ultimi anni per necessità si è fatto più politico, senza però perdere di
vista la sperimentazione, l’arte cinematografica, ha capito che la forza del messaggio sta anche in
come viene espresso. Dagli anni ’90 con Close-up e Il sapore della ciliegia di Abbas Kiarostami ai
giorni d’oggi con Il male non esiste di Mohammad Rasoulof, Gli orsi non esistono di Jafar
Panahi, passando per gli anni ’10 del 2000 che hanno visto un interesse internazionale per i film di
Asghar Farhadi e di Jafar Panahi, il cinema iraniano si impone a livello internazionale e al pubblico
europeo, cercando e sperimentando nuovi modi di comunicare che spesso intrecciano il
linguaggio metacinematografico, e anche in questo film c’è un episodio con un regista che deve
farsi approvare un film.

Il film non raccoglie solo l’eredità del cinema iraniano, ma fa riecheggiare dentro di sé varie
cinematografie. L’episodio della bambina, involontariamente, può ricordare la scena della bambina
con il cappotto rosso di Schindler’s List, come messe in scena opposte di una stessa idea. La prima
viene coperta per omologarla al sistema di pensiero dominante e in mezzo a tutti quei vestiti lei e
la sua personalità scompaiono, la seconda viene privata del suo capotto rosso e della vita: entrambe
raccontano come neanche l’innocenza dei bambini può essere tutelata di fronte al male; ma ci
sono anche le interviste di Hirokazu Kore’eda, le ombre e la sensazione di fine del mondo di Bela
Tarr.

Ma anche la grande letteratura: Kafka citato nel titolo, Orwell come l’occhio della dittatura che spia tutto, Rumi, il poeta persiano, implicitamente citato in un episodio, come a rappresentare
la vera tradizione del popolo iraniano fatta d’arte e di poesia, e Azar Nafisi, l’autrice di “Leggere
Lolita a Teheran”. Infatti, vari sono gli episodi sulla condizione delle donne iraniane: non solo gli
strati che le coprono, ma i continui ricatti che subiscono, la privazione delle loro libertà e le
pressioni sociali.

Il film ci dimostra come si può comunicare un grande messaggio, senza dimenticarsi di come viene
comunicato, ed è proprio questa commistura tra come viene rappresentato e cosa viene
rappresentato che non può lasciare indifferente lo spettatore. Il film, infatti, utilizzando solo il
dialogo, l’uso della parola, riesce a turbare intimamente lo spettatore e a creare un senso di
angoscia, forse per la mancanza del volto dell’interlocutore, forse per la gamma di emozioni,
sentimenti universali che mette in campo: vergogna, imbarazzo, fastidio, costrizione e soprattutto
oppressione. Il film porta avanti un’idea chiara e la mette in scena in una maniera che sembra
semplice, ma che tuttavia riesce grazie a una sceneggiatura solida, articolata e che mette in scena
situazioni varie, in maniera da poter rappresentare la complessità della società iraniana.

I personaggi del film non hanno solo un’ombra nera sul capo, ma una costrizione nel petto che
impedisce loro di prospettarsi un futuro diverso da quello che hanno. In un mondo dove non è una
questione di scelte morali, ma semplicemente un susseguirsi di giornate dove l’assurdità prende il
sopravvento, “se tu sei pazzo e io sono ubriaco chi ci porterà a casa?”. Il vero male è la mancanza di
empatia nei confronti del prossimo.

Voto: 3/4