LA MIGLIORE OFFERTA di Giuseppe Tornatore (2013)
Prendete L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino, bonificate la putrescenza agropontina e sostituitela con il bel mondo lucido e patinato delle aste d’antiquariato e degli eleganti mercanteggi d’arte. Prendete il suo misantropo protagonista, il laido e deforme usuraio Geremia dè Geremei e gettatelo via: al suo posto metteteci un signore distinto, ugualmente sociopatico ma grandissimo intenditore di raffinatezze d’epoca, che farete interpretare da un impeccabile attore internazionale, tra i migliori oggi in campo. Togliete la prorompenza burinesca della Chiatti in favore dell’eterea olandese Sylvia Hoeks, impalpabile e inquieta. Aggiungete una confezione pulita, senza sbavature, una colonna sonora rigorosa, benché meno efficace del solito, ad opera del maestro Morricone, qualche immagine di notevole potenza (l’inquadratura finale su tutte) e un paio di altri bravi interpreti. Ecco la ricetta di La migliore offerta, ultimo film di Giuseppe Tornatore, produzione italiana ma girato tra il Südtirole Praga con un cast che vanta Geoffrey Rush e Donald Sutherland tra i protagonisti.
L’attore australiano interpreta Virgil Oldman (nomen omen, dicevano i latini) un burbero, strapotente battitore d’asta ed esperto antiquario. Sociofobico, terrorizzato dalla contaminazione con gli altri esseri umani, in special modo le donne, vive ritirato tra i preziosi ritratti femminili che colleziona grazie alla collaborazione dell’eterno, e unico, amico Billy (Donald Sutherland, in buona forma), suo complice segreto durante le aste. Il silenzio rimbombante della sua vita asettica e ordinata come la sala di un museo viene incrinato dalla voce di una sconosciuta, ereditiera di una villa d’epoca piena di pezzi d’arredamento di valore che la donna vorrebbe stimare e catalogare, per poi venderli. L’unica peculiarità di quest’incarico è che l’ereditiera vive da anni rinchiusa nelle sue stanze, senza incontrare nessuno, vittima di una gravissima forma di agorafobia: neanche a Oldman è concesso il privilegio di incontrarla, ma solo di parlarle attraverso un muro. Finché un giorno…
Le premesse per costruire una storia interessante ci sono tutte e numerosi elementi stuzzicanti sono disseminati qua e là (il rapporto puro, paradossalmente sincero tra i due “truffaldini” Oldman e Billy, la suggestione “hugocabrettiana” dell’automa, la riflessione sulla memoria e sulla passione per l’arte, spesso surrogato della vita per chi è troppo spaventato dal mondo esterno). Ma il film, anziché decollare, appassisce di minuto in minuto, sfilacciandosi, consumandosi, come la fiamma che si accende pian piano nel freddo e misantropico protagonista. Affidandosi a colpi di scena troppo ovvi e a una parte conclusiva che si affloscia nel didascalico, rischia di ricoprire con uno spesso strato di polvere anche gli elementi che potrebbero brillare, compresa la performance, assolutamente inattaccabile ma meno entusiasta del solito, del sempre bravissimo Rush.
Un’occasione mancata per una pellicola che poteva diventare qualcosa di grande e che invece si limita a lasciarsi vedere, come una sedia Chippendale, destinata a essere guardata e mostrata senza che la si possa usare. E quindi senza che la si possa vivere.
Voto: 2/4