Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, la recensione

A cura di Francesco Pozzo

Premessa doverosa: chi scrive reputa Paul Thomas Anderson uno dei più grandi registi viventi. Tutti i suoi film, a parte due eccezioni spiacevolmente considerevoli di cui diremo a breve, oscillano fra il bello e il capolavoro, con punte massime e cristalline toccate dalla mirabile triade composta da Il petroliere, The Master e Il filo nascosto.

Ciononostante, il suo cinema – eccezion fatta, per l’appunto, per l’equilibrio perfetto, vulcanico e quasi alchimistico raggiunto dai tre titoli sopracitati – non è mai stato avulso da certe tendenze narcisistiche colpevoli di togliergli, a tratti, autenticità, forza, respiro. Il che ci porta, amaramente, alle due eccezioni sopracitate, questo nuovo Licorice Pizza, e Vizio di forma: due pellicole unite da una grammatica cinematografica similare e da diversi punti, scelte e vezzi formali che incapsulano, purtroppo, le più indulgenti tendenze di un regista che, arrivato a questo punto della carriera e con più di un titolo capitale alle sue spalle (e nonostante i puntuali e molto esigui riscontri al botteghino), può fare essenzialmente (e fieramente, gliene va dato atto) tutto quello che gli pare: caratteristica non indifferente.

Proprio qui risiede, infatti, quantomeno ad avviso di chi scrive, il problema principale di Anderson e di altri importanti autori della contemporaneità: cioè a dire un eccesso sconfinato di libertà. Libertà che, presumiamo, può portare un regista, quantomeno in fase di riprese, a compiacersi e a divertirsi: ma che lo allontana inevitabilmente, salvo la solita pletora di fans parziali a cui qualunque cosa si somministri va sempre magnificata a prescindere (la politique des auteurs ha fatto danni seri…), dal pubblico che lo ama e che non desidererebbe altro che seguirlo.

Questo Licorice Pizza ci sembra dunque, sostanzialmente, il film di un genio che gira a vuoto compiacendosi del suo ego e delle sue indubbie e sconfinate abilità tecniche: l’opera di un grande uomo di cinema che possiede ovviamente (ma che scoperta!) l’inaudita capacità di ricreare un universo, un’atmosfera, un feel complesso e variegato come quello della San Fernando Valley dalle tinte ocra e psichedeliche dei primi anni Settanta (attraverso un approccio e una tavolozza cromatica simile, per più aspetti, a quella messa a punto dal sodale Tarantino e da Bob Richardson nel notevolmente più riuscito C’era una volta a… Hollywood), con una capacità di cullarti e farti rivivere fugacemente (ma epidermicamente) i sogni infranti, i sapori, gli umori, le molte contraddizioni e le precarie speranze dell’umanità di quel tempo (e se riesci a farlo, in fondo, maestro devi esserlo per forza), ma che in questo caso specifico – e ci duole infinitamente scriverlo – sembra non condurre, tirate le somme, da nessuna parte: o quantomeno in nessun luogo di particolare interesse.

In ogni singola sequenza, dilatata tre volte più del necessario senza una vera esigenza narrativa o ragione precisa che non sia quella di compiacersi e di compiacere la sua claque acritica offrendo uno spettacolo poco sottile ma di vacua approvazione coûte que coûte, Anderson pare guardarsi continuamente e ossessivamente l’ombelico, rimirarsi (eccolo lì, il Vizio di forma…), a far sfoggio d’un narcisismo un po’ sterile e altezzoso che stucca rapidamente, appesantendo non poco due ore faticose che, a parte qualche guizzo sporadico e vagamente colorito o divertente (è pur sempre un suo film, beninteso), non solo aggiungono poco o nulla alla sua ricchissima, impressionante e infinitamente superiore filmografia precedente, ma si collocano addirittura molti passi indietro rispetto a questa: alle prodigiose meraviglie e alle vertiginose profondità raggiunte e consolidate con coerenza e dedizione degna di miglior causa da oltre un venticinquennio di cinema ad oggi.

Che altro è questo, allora, se non un agrodolce e impeccabilmente confezionato divertissement che avrebbe tutte le carte in regola per entusiasmarci e stregarci ancora una volta, ma che si rivela invece, in fin dei conti, un’operazione un po’ incerta e soprattutto (non ci capacitiamo) poco sostanziosa e affascinante?

Ci piace pensare che Licorice Pizza sia realmente il film rilassato che Anderson intendeva girare in un momento particolarmente sereno della sua esistenza nel bel mezzo del disagio pandemico che attanaglia il mondo intero, e che però, al di là delle solite, ispiratissime prove attoriali fra cui si segnala il bravissimo figlio d’arte Cooper Hoffman, della trasfigurazione magnifica di un mondo perduto e di qualche chicca piuttosto gradevole (ma non si va oltre), non riesce mai a calarti, nemmeno per un istante, nei meandri della psiche, nei problemi e nelle difficoltà effettive di un gruppo di personaggi scialbi, senza fascino né spessore (forse perché, appunto, già sulla carta privi di reale consistenza), e che sembrano rincorrersi a perdifiato per l’intero arco del racconto (chiamiamolo così) senza aver poi granché da dirsi e da dirci (come direbbe eloquentemente qualcuno…): a creare un percorso coerente, avvincente e non inutilmente ondivago capace di restituirci qualcosa che non si limiti alla semplice cartolina in pellicola dorata, ma che ci appassioni concretamente togliendoci il dubbio di non avere fra le mani un mero sfoggio di bravura e (scontata) sapienza registica.

Offrendoti la prova, insomma, che non si tratti semplicemente di un fatuo esercizio di stile dal sapore vagamente vanesio, nonché, sia detto, parecchio autoassolutorio.

Spiace, assai.

Voto: 2½/4