L’IPNOTISTA di Lasse Hallstrom (2012)
Certe volte nella vita bisogna tornare a casa per riscoprire le passioni che ti hanno spinto a essere ciò che sei oggi. Lo sa bene Lasse Hallstrom, regista nato a Stoccolma che è riuscito a costruirsi una carriera a Hollywood. Dopo il successo ottenuto con La mia vita a quattro zampe (1985), il cineasta svedese si trasferì negli States, dove girò alcuni dei più famosi film romantici degli ultimi vent’anni, tra cui Le regole della casa del sidro, Chocolat, Hachiko e Dear John (oltre al ben più riuscito film drammatico Buon compleanno Mr. Grape).
Dopo venticinque anni di carriera, Hallstrom ha sentito il desiderio di tornare a casa per girare un thriller, L’ipnotista, basato sull’omonimo romanzo best-seller 2009 di Lars Kepler (pseudonimo dei coniugi scrittori Ahndoril, loro personale omaggio all’ultima star della letteratura crime svedese Stieg Larsson e all’astronomo rinascimentale Johannes Kepler). L’ispettore Joona Linna (Tobias Zilliacus) sta indagando sulla brutale carneficina di una famiglia avvenuta nei sobborghi di Stoccolma. L’unico sopravvissuto, il figlio adolescente della famiglia, è in coma e non può essere interrogato convenzionalmente. Lottando contro il tempo, Linna persuade l’ipnotista Erik Maria Bark (Mikael Persbrandt) a fare un tentativo per comunicare con il ragazzo e farlo parlare sotto ipnosi.
Il film s’inserisce appieno nel filone thriller/crime che da un po’ di anni a questa parte coinvolge i paesi del nord Europa e più in particolare la Svezia. La trilogia Millennium firmata da Larsson (che ha dato vita a un corrispettivo cinematografico e a un remake a stelle e strisce) è stata precorritrice, ma ha anche fotografato i disagi di un paese che apparentemente sembrava non averne. Questa pellicola però ricorda pericolosamente gli esempi precedenti: i personaggi sembrano parenti stretti di Mikael Blomkvist e Lisbeth Salander e la fotografia rimanda inevitabilmente alle cupe atmosfere che circondavano la famiglia Vanger.
Il thriller è sviluppato a dovere, anche se qualche inquadratura di troppo permette di intuire da subito l’intreccio e, nonostante abbia una durata complessiva che supera le due ore, non annoia. Qualità che però non serviranno a rammentare le vicende narrate: al mio tre riapriremo gli occhi e non ricorderemo più nulla.
Voto: 2/4