NOMADLAND di Chloé Zhao, la recensione

Nomadland | Associazione Circuito Cinema

Al cinema e su Disney+ dopo il trionfo agli Oscar 2021, Nomadland è il film simbolo della cinematografia americana in questo anno di pandemia senza blockbuster e titoli Big: cinema piccolo, intimista, girato con mezzi limitatissimi, più contemplativo che di narrazione, che va a scandagliare il ventre molle di un’America marginale. Capace di conquistare una messe di premi, dal Leone d’Oro a Venezia agli Academy Awards, ha consacrato la regista Chloé Zhao, seconda donna dietro la macchina da presa premiata con l’Oscar e già chiamata a dirigere un film ad alto budget, The Eternals della Marvel.

Proprio la figura della Zhao risulta particolarmente interessante sia alla luce del grande successo in fatto di premi di Nomadland (in un anno in cui il successo di pubblico conta poco, semplicemente perché non si è andati al cinema: il discorso piattaforme è molto più complesso di quello della sala), sia nell’ottica di un’analisi del film. Nata e cresciuta in Cina, la regista ha attraversato i continenti sin dall’adolescenza e ha frequentato le superiori in Gran Bretagna e l’Università negli Stati Uniti. Qui ha avviato il suo percorso cinematografico forte di una fascinazione per il West americano, che ha raccontato nei suoi tre film: Songs My Brothers Taught Me, su due fratelli della riserva Sioux di Pine Ridge, The Rider – Il sogno di un cowboy, su un mandriano ex campione di rodeo, e appunto Nomadland, storia di una donna che dopo la morte del marito e lo spopolamento della sua cittadina inizia una vita senza radici a bordo di un van sulle strade americane, tra lavori stagionali e la frequentazione di altri nomadi.

Si è detto che l’intero film si regge sull’interpretazione di Frances McDormand, che in effetti è gigantesca nel raccontare il viaggio fisico e mentale della sua Fern. Ma è altrettanto interessante l’approccio visivo e stilistico della Zhao, che tiene distanze siderali dal road movie da cartolina e alle classiche immagini patinate del paesaggio Usa sostituisce inquadrature più rudi e grezze, con una predilezione per le scene al crepuscolo. La regista imprime al film un’impronta verista (che in parte abbiamo visto anche in un altro film candidato all’Oscar, Sound of Metal) in un film di ampio respiro che talvolta può ricordare Into the Wild nella sostanza ma è più asciutto e malinconico nella forma, essenziale come la vita dei suoi protagonisti, eredi della filosofia on the road in grande parte interpretati da veri nomadi (come Bob Wells, fondatore del raduno Rubber Tramp Rendezvous).

Chloé Zhao e lo sguardo intenso di Frances McDormand ci conducono in un mondo di outsider, che da una parte la Recessione e il fallimento del Capitalismo hanno portato a una condizione di sottoproletariato costretto a lavori asettici (vedi Amazon), ma che dall’altra hanno ritrovato tra le maglie della società una fuga verso la libertà e la riscoperta dello spazio intimo e circostante. Per Fern quell’eterno e ciclico peregrinare diventa la “vita normale”, un ritorno alla natura e all’essenza di se stessi, senza dimenticare il dolore del passato. Intense le musiche di Ludovico Einaudi così come la bellissima canzone Drifting Away I Go che chiude sui titoli di coda. 

Voto: 3/4