OLDBOY di Spike Lee (2013)

Locandina OldboyIl remake made in Usa del film che Quentin Tarantino avrebbe voluto dirigere alla fine l’ha girato uno degli amici-nemici del regista italoamericano. È toccato a Spike Lee, infatti, l’onere di riadattare in chiave occidentale e americana Oldboy, il film che ha dato notorietà internazionale a Park Chan-wook con tanto di Gran Prix Speciale al Festival di Cannes 2004, presieduto proprio da Tarantino.

Regista mai refrattario a qualsiasi tipo di sfida, altalenante ma sempre appassionato nel suo lavoro e nella voglia di perseguire un cinema fuori dagli schemi, Spike Lee prende il soggetto del film di Park e tenta di farne un oggetto proprio, rispettoso nei confronti del modello di riferimento ma senza timori reverenziali.

Apportando poche, ma significative, differenze alla storia originale, Lee ha il pregio di adottare un approccio personale, mai stancamente derivativo ma sempre imprevedibile e creativamente vitale.

 

La riuscita di questo Oldboy versione 2013, quindi, esula quasi completamente da qualsiasi riferimento al film di Park, la cui presenza si fa sempre meno ingombrante con il passare dei minuti. Inizialmente sopra le righe in maniera forsennata, quasi a voler sottolineare con snervante reticenza la propria autonomia dal mostro sacro che sta tentando di reinterpretare alla sua maniera, il film di Spike Lee si risolleva gradualmente e cresce alla distanza, fino ad un finale assai convincente, meno ambiguo dell’originale, perseguendo con coerenza il percorso di espiazione del suo protagonista.

Proprio qui risiede il punto di maggiore interesse dell’operazione di Spike Lee che, come Park dieci anni fa, descrive un mondo amorale e spietato, ma lo sguardo dell’autore newyorchese è meno disincantato di quello del suo collega coreano e lascia spazio ad una possibilità di redenzione per Joe, uomo abietto e volgare, prigioniero per vent’anni per cause a lui ignote, incapace di intravvedere le proprie responsabilità nella deriva verso cui la sua vita sta andando fino al momento della reclusione forzata che farà nascere in lui una nuova consapevolezza. Non solo, quindi, la ricerca di una vendetta ma la volontà di sistemare le cose spinge Joe all’azione, guidato più che da una furia cieca da una ferrea determinazione “a fare la cosa giusta”.

Peccato per una prima parte abbastanza sconclusionata, ipertrofica e a tratti stordente che illustrandoci la sgradevolezza del personaggio di Joe prima e della sua prigionia poi risulta a sua volta piuttosto sgradevole e fastidiosamente eccessiva. Nel momento in cui Joe viene liberato dalla sua prigionia, l’Oldboy di Spike Lee finalmente si rimette in carreggiata e diventa qualcosa di ben più complesso e affascinante di una semplice rilettura in chiave americana superficiale e frettolosa.

Notevole la prestazione di un Josh Brolin dolente e martoriato, fisicamente e psicologicamente, risoluta macchina da guerra, con campionario di colpe al seguito, così come azzeccata è la scelta di Elizabeth Olsen nel ruolo della dolce e problematica Marie, assistente sociale dall’oscuro passato.

Deludente assai, invece, la prova di Sharlto Copley nei panni del villain azzimato e mentalmente disturbato, mentre pura accademia manierista la riserva Samuel L. Jackson in un ruolo minore ma significativo.

Discontinuo, imperfetto ma affascinante l’Oldboy di Spike Lee è un’operazione interessante e parzialmente riuscita, forse non del tutto necessaria, ma meno disturbante e deleteria di quanto non ci si potesse aspettare.

 

Voto: 2,5/4