Spider-Man: No Way Home, la recensione

A cura di Francesco Pozzo

La solita solfa. Difficile aggiungere altro in riferimento all’ennesimo, sgargiante polpettone Marvel scrupolosamente pianificato in laboratorio: esemplificazione eloquente e perfetta del tentacolare concetto di fast food trapiantato al cinema, dove le dinamiche di svolgimento della vicenda, le emozioni e i colpi di scena molto presunti vengono dettati ancora una volta dalle pure (ed altissime) esigenze economiche e logistiche della cosiddetta Casa delle Idee (guai se non s’incastra tutto!), la quale sceglie, questa volta, con furbizia quasi luciferina, di optare per un sunto eterogeneo e gargantuesco di questi vent’anni cinematografici dell’Uomo Ragno, di tutta la sua mitologia, della sua sterminata iconografia, di ciò che Spider-Man per noi rappresenta, portando sul grande schermo il più anfetaminico, pretestuoso, gratuito e sfacciato fanservice a memoria di spettatore.

Compito considerevole: e non c’è dubbio che il prodotto in questione – che racconta di come il molto immaturo Peter Parker diventi (forse) adulto facendo il suo trionfale (?) ingresso nel MCU fra una strizzatina d’occhio e qualche timida virata crepuscolare combinata alla tipica, tediosa confusione disarticolata delle infinite battaglie digitali a fare da contrappeso – riuscirà nell’intento (molto lodevole) di riportare gli spettatori in massa nelle sale cinematografiche di tutto il mondo (anche se per un cinema senza pensiero), segnando al contempo un nuovo inizio per la saga e consegnando ai posteri l’usuale e luccicante pietra miliare per fan devoti dell’ormai (purtroppo!) sempre più stantio genere del cinecomic: ma cinematograficamente parlando, di preciso, che cosa si potrebbe dire, di questo titolo, se non, appunto, che il tutto si riduce ad una simpatica marchetta nostalgica, meno intollerabile di altri titolo Marvel e con qualche momento vagamente gradevole, oltreché uno sfizioso finalino alla Frank Capra?

Spiace ribadirlo ad ogni occasione, ma gli unici Spider-Man degni d’interesse (e parecchio), in cui è riscontrabile una lucidità autoriale seducente unita ad una cospicua dose di meraviglia e vero cinema (come sintetizzerebbe impeccabilmente il Maestro Scorsese), e dai quali si dovrebbe prender seriamente e finalmente esempio, e non certo per scontri e clangori digitalizzati (comunque infinitamente superiori, in concretezza, fantasia e dinamicità a quelli attuali, tutti puntualmente uguali, bigi, banali e inconsistenti), sono quelli del mai troppo rimpianto Sam Raimi (nuovamente irretito nelle maglie dell’universo Marvel col nuovo Doctor Strange a breve in uscita, e che Iddio ce la mandi buona…), pellicole intense, sostanziose e memorabili (anche il terzo, in fin dei conti, pur nel suo turgore claudicante: specie se paragonato agli obbrobri che ci vengono somministrati oggi) che condensavano tutto ciò che a questo film manca e che in generale latita completamente nel trito cinema in calzamaglia e d’intrattenimento della contemporaneità: emozione, malinconia, desiderio, romanticismo, pathos, sensualità, fisicità, carnalità, visionarietà, invenzioni visive stupefacenti e mai plastificate, qualcosa per cui temere e a cui entusiasmarsi realmente, passione e coinvolgimento autentico, stupore e genuino senso di magia, uno sguardo pregnante e delicato al tempo stesso.

E quindi, questo passa il convento. A voi scegliere se vi sta bene oppure no.

P.S.: questa fobia ossessiva dello spoiler ci è sfuggita di mano, e da tempo.

Voto: 2/4