Suspiria: maestri a confronto
A cura di Francesco Pozzo
Il 2018 fu l’anno della svolta per Luca Guadagnino: quello in cui l’ormai celebre regista girò due film che più dissimili – e importanti, in primis per sé stesso – non potrebbero essere: nella primavera, in quel di Crema, Call Me by Your Name; in autunno, a Varese e poi a Berlino, Suspiria: un film passato in sordina (al di là degli sfolgorii festivalieri) ma che era (ed è) un bellissimo poliedro: una matrioska in sei atti e un epilogo che mette da parte i colori psichedelici del gioiello cui s’ispira per concentrarsi su ciò che viene taciuto.
Difatti, se Suspiria di Dario Argento era una magnifica favola nera che viaggiava sul filo di un orrore mostrato con tocco vellutato memore delle fiabe di Hans Christian Andersen, il Suspiria di Guadagnino è un film duro e complesso che sfuma i confini fra bene e male così nettamente definiti nel capostipite nel tentativo tanto temerario quanto affascinante di penetrare la psiche dei suoi protagonisti meditando di pari passo sugli orrori della Storia.
Il film, volutamente esangue come il momento storico che il mondo si trovava a fronteggiare dopo il secondo conflitto mondiale e la tragedia dell’Olocausto, abbandona virtuosismi, cromatismi baviani e architetture gotiche per adottare un linguaggio che si addentra ingegnosamente nel contesto che nel film del ’77 (anno in cui hanno inizio le vicende di questo) faceva da sfondo: le streghe, in primo luogo, non sono certo le semplici nemiche intente a tramare silenziosamente nell’ombra di allora, ma un gruppo di matrone pasoliniane i cui conflitti s’intrecciano gradualmente alla divisione, alla rabbia e alla violenza di un periodo tumultuoso e controverso che si riverbera all’interno della scuola e nel privato dei suoi allievi.

È un grande film sul potere delle donne, Suspiria 2018, ma anche il doloroso bildungsroman della giovane Susie (una luminosa e perturbante Dakota Johnson) e una toccante meditazione sulla maternità: su cosa significhi profondersi in un amore totalitario e sulle cupe derive a cui esso può condurre; l’opera di un cinefilo che sulle orme di Fassbinder (innumerevoli gli omaggi, a partire dall’attrice feticcio Ingrid Caven) reinterpreta i canoni dell’horror mettendo in scena un tortuoso percorso di affermazione della propria identità e del potere (anche) sessuale del proprio corpo arrivando a porsi domande mai banali sull’Autunno tedesco e sui fantasmi della guerra fredda, sul peso della memoria e sulla Germania divisa in preda agli atti terroristici della RAF: sulle colpe di una nazione reduce da uno dei più atroci e inenarrabili crimini perpetrati all’umanità e sull’esplorazione di una presa di coscienza che non potrà che culminare in un catartico balletto di sangue.
Una riflessione, soprattutto, sulla necessità dell’amore e sul linguaggio dei corpi: sul fascino saffico e ancestrale che una donna esercita sull’altra e su quelle relazioni arcane e incomprensibili che nemmeno i meccanismi della psicoanalisi possono riuscire a districare: sentimenti non troppo dissimili, in fondo, da quelli provati dal Dottor Klemperer (uno dei tre ruoli interpretati da Tilda Swinton: espediente sul quale al tempo si giocò molto) per l’amata moglie scomparsa ai tempi dei rastrellamenti nazisti, e forse le uniche forze in grado di rischiarare l’oscurità e di condurre ad una sorta di calma ed equilibrio apparente.

Se la potenza del cult argentiano risiedeva nell’immediatezza di un terrore barocco che martellava i sensi attraverso l’uso di sonorità distorte e tonalità fluorescenti, la morbosa malia del film di Guadagnino si cela in un gelido labirinto di specchi e tortuosi corridoi che si scoprono pian piano inoltrandocisi: un dedalo di sospiri e stanze segrete dove nulla è ciò che sembra e in cui la verità si nasconde sempre sotto la superficie delle cose e dell’abbacinante cura formale cui il cineasta ci ha abituato.
Ed è proprio di questa ribollente ed esemplare passione, di quest’ammirevole ricercatezza e di questo galvanizzante desiderio di stimolare il corpo, il cuore e la mente ragionando sul genere, sulla Storia e dunque su noi stessi, che il cinema e l’arte hanno bisogno come l’aria. Bravo, Luca.

“No more dreams tonight.”